Cosa tenere, cosa lasciare: etica dell’emergenza
La pandemia da COVID-19 sta drammaticamente rivelando l’ampiezza del suo impatto, sul nostro paese e sulla comunità internazionale tutta. Le dinamiche del contagio interessano ormai tutto il mondo – purtroppo talvolta in modo devastante –: una catena di eventi che segnerà profondamente il nostro futuro.
Quando l’emergenza si avvicinerà a conclusione, sarà imperativa una riflessione sui molti necessari cambiamenti: sul piano socio-economico, ma anche nel nostro rapporto con la terra.
Per ora limitiamoci a registrare che per fortuna l’Italia sembra riuscire a tenere sotto controllo il contagio: ancora troppo alte, certo, le cifre quotidiane dei morti, ma le misure di contenimento sembrano funzionare.
Già l’avevamo sottolineato: questo è il frutto dell’opera di molti, e molti sono i grazie da dire. Alla generosità di chi si dedica alla cura in prima linea; ai molti che resistono per mantenere funzionanti in condizioni anomale tante strutture necessarie alla vita comune (dalla filiera alimentare alla produzione di mascherine).
Ma occorre dire grazie anche alla responsabilità di tantissimi che hanno preso sul serio l’invito a restare a casa, riducendo al minimo necessario gli spostamenti, praticando un telelavoro spesso oneroso, rinunciando rigorosamente a tante dimensioni della vita cui normalmente teniamo.
Rinunciare
Già, le tante cose cui teniamo: a quante ci sta costringendo a rinunciare questo tempo? Così tante che non vale la pena di elencarle; basta solo dire che stiamo scoprendo che – almeno per un po’ – di molte tra di esse riusciamo a fare a meno, magari inventandoci creativamente alternative. Altre invece ci mancano davvero, a partire dalla possibilità di uscire, specie per i più giovani. Ma non si può abbassare la guardia: resistere – ancora per qualche settimana – è oggi un imperativo per un’etica dell’emergenza.
In altri casi la rinuncia è davvero lacerante: l’impossibilità di confortare e salutare coloro che si trovano a sperimentare la fine della vita rende più dura la loro morte e più acuto il dolore di chi resta.
Ma qual è l’alternativa? Possiamo davvero pensare di mettere in pericolo la vita di altri (parenti, ma anche personale sanitario...)? Il grave rischio di altre malattie e altre morti non è un prezzo troppo alto da pagare? A emergenza superata potremo (dovremo!) certo progettare protocolli per tornare a garantire anche queste possibilità che dicono di una dimensione fondamentale di umanità, ma in questa fase ancora così grave?
Mantenere la rotta
Stupiscono in questo contesto le proposte che mirano ad allentare il rigore di misure necessarie alla tutela della salute, magari facendo leva su valori pur importanti. La vicinanza del triduo pasquale ha portato Davide Rondoni sulla rivista Tempi a proporre la ripresa di celebrazioni pubbliche – pur ad accesso strettamente limitato – in occasione della Pasqua.
Certo, per la fede cristiana – così attenta alla dimensione fisica e sacramentale – è un tempo particolare in cui pesa particolarmente di non poter partecipare personalmente alla celebrazione. E tuttavia perché non valorizzare altre dimensioni della pratica credente: la preghiera, la lettura della Scrittura, la meditazione? E magari le tante proposte offerte dal web (segnalo in particolare il bel sussidio proposto sul sito Insieme sulla stessa barca, assieme a una lettera di riflessione)?
Soprattutto perché non ricordare che lo stesso Gesù dichiara di essere venuto «perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10)? Perché dimenticare che la sua morte mira ad aprire spazi di vita per molti? Perché in un tempo di pandemia dovremmo riunirci, per celebrare tale evento, attivando dinamiche contraddittorie rispetto al suo significato?
Papa Francesco ha voluto testimoniare anche questo con la sua presenza solitaria in Piazza san Pietro nella preghiera del 27 marzo. Dispiace che in tante celebrazioni viste in TV non si riesca a procedere con la stessa sobria essenzialità: forse si ritiene che la fede garantisca una sorta di extraterritorialità (rispetto alle norme proposte dallo stato, ma anche alle dinamiche del contagio)? Oggi la responsabilità chiede rinunce faticose, ma forse questa è più sostenibile di altre; nel tempo di un’etica dell’emergenza, occorre tenere salda la barra, custodendo gli argini faticosamente costruiti.
La stessa Pasqua, del resto, dice di una vita che si rivela più forte della morte, per chi sa attendere, nella speranza; la stessa rinuncia sta in questo spazio di attesa: guarda certo oltre l’emergenza, ma non ne ignora la portata letale.
Simone Morandini è coordinatore del progetto «Etica, teologia, filosofia» della Fondazione Lanza e insegna all’Istituto di studi ecumenici San Bernardino di Venezia; è coordinatore del blog Moralia.