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Moralia Blog

Cieli sereni, addio

«Cieli sereni» è un’espressione in voga tra gli astrofili, una locuzione che è tanto bella quanto immediata e semplice. Il cielo, osservato con un telescopio o un binocolo anche di modesta fattura, è un motore di serenità inaspettate.

L’emergere di puntini di luce dal nero della notte è un lento emergere del desiderio dell’essere umano di andare oltre il proprio limite creaturale e terrestre. Un’esperienza che ha del religioso e del mistico nella semplicità biologica dell’espansione della nostra pupilla che, famelica, cerca i fotoni che dallo spazio profondo narrano al nostro cervello di quei mondi lontani.

Purtroppo il cielo stellato è uno dei beni che la rivoluzione industriale ha portato via. Dalle nubi delle fabbriche e dei riscaldamenti, ai fanali dell’illuminazione pubblica delle vie e delle piazze, tutto ha concorso a oscurare il firmamento. Il lettore può verificare le condizioni del suo cielo di casa sul sito lightpollutionmap.info e scoprirà in numeri e colori quello che probabilmente con poca consapevolezza vive quotidianamente.

Finestra di senso

Uno studio della Royal Astronomical Society fa il punto sulla situazione, mettendo nero su bianco il fatto che nel nero del cielo sempre meno vedremo il bianco delle stelle. Secondo il World Atlas of artificial night sky brightness, circa l’80% della popolazione mondiale non ha accesso a un vero e proprio cielo notturno. In Europa e negli Stati Uniti questa percentuale raggiunge il 99%, con alcune eccezioni – in corso di mutazione – in Austria, Norvegia e Svezia.

L’inquinamento luminoso non è solo una questione ecologica in senso stretto, è soprattutto una questione di senso, morale oserei dire. Il cielo stellato ha un intrinseco valore spirituale. Non è solo fonte di ispirazione per i poeti e i cantautori o la location ideale per gli innamorati, il cielo stellato è stato e deve continuare a essere uno dei motori della ricerca di senso dell’essere umano.

Il diritto al cielo

Possiamo dire che debba esistere un diritto al cielo stellato? In qualche modo sì. Se la dignità dell’essere umano si concreta nel poter essere e diventare se stesso, ebbene quegli strumenti eletti che gli assicurano tale processo sono in qualche modo una filiera da custodire e preservare.

Quale significato dare al secondo giorno della creazione? Così la Scrittura: «Dio disse: “Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque”. Dio fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che son sopra il firmamento. E così avvenne. Dio chiamò il firmamento cielo. E fu sera e fu mattina: secondo giorno». (Gen 1,6-8).

Nella visione biblica, e la radice semantica di quello che traduciamo con firmamento conferma, esso è una lastra di metallo trasparente che separa le acque della terra dalle acque del cielo per permettere che vi sia uno spazio vitale. L’opera, che è portata a compimento il terzo giorno, è buona proprio perché permette la vita, lo spazio di vita.

La nostra conoscenza del cielo non fa venire meno il significato spirituale di questa visione, anzi la esalta: il cielo stellato è posto a custodia di uno spazio di vita altrimenti impossibile, fisico e vitale, ma anche di uno spazio di vita interiore, non sommerso dalle grandi acque di ogni tempo e quindi anche di questo tempo.

Una soglia aperta

Fretta, prestazione, immediatezza, monetizzazione e via discorrendo spariscono nell’oculare di un telescopio o di un binocolo, ma anche o soprattutto a occhio nudo. Il cielo stellato rimanda ad altro e a un altro, restituisce quell’umiltà necessaria a essere terra capace di generare orizzonti di senso nuovi, restituisce la consapevolezza di essere noi a nostra volta un puntino infimo nel cielo, ma un puntino ove Dio ha scelto di incarnarsi per amore.

Le parole di Paolo VI al momento dello sbarco sulla luna sono in questo più che significative: «Noi, umili rappresentanti di quel Cristo che, venendo fra noi dagli abissi della divinità, ha fatto echeggiare nel firmamento questa voce beata, oggi vi facciamo eco, ripetendola come inno di festa da parte di tutto il nostro globo terrestre, non più invalicabile confine dell’umana esistenza, ma soglia aperta all’ampiezza di spazi sconfinati e di nuovi destini».

Smorzare la luce di un fanale, scegliere di non illuminare a giorno quanto è brutto anche in pieno sole ci faccia valicare nuovamente quel confine dell’umana esistenza. 

 

Luca Peyron è presbitero della diocesi di Torino, docente di Teologia all’Università cattolica di Milano e di Spiritualità delle tecnologie emergenti all’Università degli studi di Torino. Ha scritto Incarnazione digitale. Astrofilo dilettante.

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