Chirurgia estetica: come un burqa di carne?
L’incisiva espressione è contenuta
nella traccia di lavoro dell’assemblea plenaria del Pontificio consiglio della cultura
(4-7 febbraio 2015) sul tema Le
culture femminili: uguaglianza e differenza, ed è sta pronunciata dal card.
G. Ravasi nella conferenza stampa di presentazione dell’evento, suscitando
vivaci reazioni mediatiche in difesa della legittimità del ricorso alla
chirurgia estetica.
Non era questo, però, il senso inteso, visto che il ricorso alla chirurgia per migliorare il proprio aspetto fisico può essere affrontato in termini bioetici con un prudente bilanciamento dei principi classici dell’integrità e della totalità. Essi possono legittimare interventi su singole parti anatomiche in funzione del benessere globale della persona, anche se l’attuale ricorso pervasivo al bisturi estetico pone seri interrogativi intorno alla riduzione oggettuale del corpo umano e alla difficoltà di accettare serenamente i segni fisiologici dell’invecchiamento.
Ciò che si voleva mettere a tema, invece, era una questione culturale particolarmente scomoda e rilevante nella civiltà dell’immagine: l’imposizione di uno stereotipo unico di bellezza femminile – patinata, eternamente giovane e destinata al soddisfacimento maschile – come condizione perché le donne assumano visibilità e rilevanza nelle società occidentali. Difficilmente esse riescono ad affermarsi e a essere riconosciute per le proprie doti umane e professionali; spesso la necessità di adeguarsi allo standard dominante viene accettata come ineluttabile, ora con rassegnazione, ora come pretesa espressione di libera disposizione di sé. Ciò rivela che, rispetto al burqa di stoffa, simbolo evidente della sudditanza al potere maschile e della discriminazione di genere, il “burqua” inscritto nella cultura (prima) e nella carne (poi) è molto più difficile da individuare e perciò costituisce un’ingiustizia ancor più subdola e inquietante.
Per una riflessione sulla questione che appare degna di approfondimento e di confronto, ci sembra utile rimandare al documentario Il Corpo Donne di Lorella Zanardo, che già nel 2009 denunciava con argomenti persuasivi lo sfruttamento mediatico del corpo e la deformazione del volto femminile, e a un documento ecclesiale poco conosciuto, la Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo (31 maggio 2004), nel quale si propone una positiva valorizzazione della donna nella società e nella Chiesa, ispirata alla logica della reciprocità delle differenze.
Procedere su tale via appare urgente e necessario, perché è in gioco la nostra comune umanità, come già ebbe a scrivere Giovanni Paolo II nel 1995: «Siamo purtroppo eredi di una storia di enormi condizionamenti che, in tutti i tempi e in ogni latitudine, hanno reso difficile il cammino della donna, misconosciuta nella sua dignità, travisata nelle sue prerogative, non di rado emarginata e persino ridotta in servitù. Ciò le ha impedito di essere fino in fondo se stessa, e ha impoverito l’intera umanità di autentiche ricchezze spirituali» (Lettera alle donne).
Giovanni Del Missier