Assalto al Campidoglio USA: domande scomode alla Chiesa
L’assalto del 6 gennaio 2021 alla sede del Congresso degli Stati Uniti a Washington da parte dei sostenitori di Trump non è stato un incidente causato da una sbalorditiva mancanza di preparazione (o connivenza) delle autorità responsabili dell’ordine pubblico.
È un episodio che s’iscrive una serie di minacce da parte di milizie armate contro parlamenti e governatori degli stati negli ultimi mesi da parte del «movimento Trump»; il presidente stesso aveva incitato i suoi sostenitori in un discorso pronunciato di persona, di fronte a loro, poche ore prima; oltre cento tra deputati e senatori, nella notte dopo l’assalto, hanno continuato nel loro tentativo di ostacolare la certificazione dell’elezione di Joe Biden a presidente.
Risalire ai fatti del 2001
La giornata del 6 gennaio, con il tragico conteggio dei morti e una serie di cascami legali e politici di cui ancora non si coglie la trama, va vista all’interno di una cronologia più lunga: gli ultimi cinque anni di trumpismo; la reazione dell’America bianca all’elezione Obama nel 2008; il nazionalismo e il militarismo come effetti dell’11 settembre 2001 e delle guerre in cui l’America è coinvolta in Afghanistan dal 2001 e in Iraq dal 2003 (e in modo meno visibile in altri paesi).
Ma si deve allargare lo sguardo e la cronologia: l’assalto al Congresso pone in modo drammatico e visivamente inevitabile la domanda su cosa siano gli Stati Uniti. Si sentono ripetere – anche da parte del presidente eletto Joe Biden – mantra del tipo «l’America non è questo», «l’America è meglio di così».
Ma l’America è anche quello che abbiamo visto il 6 gennaio: il patibolo montato di fronte al Campidoglio, i giornalisti quasi linciati dalla folla, gli slogan negazionisti della Shoah, il «Dio con noi» di sinistra memoria.
Vivo dal 2008 in America, dove mi sono sposato e dove i nostri figli sono nati e vanno a scuola. Sono molto grato a questo paese e alla sua Chiesa per avermi accolto. Ma gli istinti del populismo della «white supremacy», la celebrazione della violenza, l’uso politico e nazionalista della religione, la presenza delle forze armate nelle istituzioni sono tutti elementi che fanno parte della storia americana. Il trumpismo ha dato un leader a sentimenti presenti da sempre nella storia statunitense. Il 6 gennaio è un capitolo dell’autobiografia della nazione, non uno sfregio o uno scarabocchio a margine.
Nella crisi epocale dell’anglosfera
Perché questi istinti si sono scatenati in un modo più rabbioso rispetto a prima? Le risposte semplici sono spesso sbagliate.
Il movimento che sostiene Trump è un movimento che dà voce a un risentimento di vari tipi: economico, per un paese in declino nel mondo, in cui l’America non è più la sola potenza; culturale, per la crescente separazione tra zone urbane e suburbane da un lato e zone rurali e de-industrializzate dall’altro; religioso, per la lotta senza quartiere tra anima religiosa e anima laicista.
Ma c’è anche – ed è il fattore nuovo dal 2008 a oggi – un risentimento etnico e razziale che esce dai margini e diventa mainstream. La retorica trumpiana della «elezione rubata» non è altro che il rigetto per un risultato dell’elezione determinato dal fatto che le minoranze afroamericane e dei latinos hanno votato in massa e in gran parte per Biden.
I tentativi dei repubblicani (da un decennio ormai) di ostacolare l’esercizio del diritto di voto da parte delle minoranze sono falliti, almeno nelle elezioni del 2020.
Trump divenne personaggio politico con la sua campagna di disinformazione contro Obama, accusato di non essere nato negli Stati Uniti e quindi di occupare illegittimamente la Casa bianca. Il trumpismo è la reazione violenta a uno shock che inizia già con la presidenza Obama e si radicalizza in quegli anni.
Oggi il paese non è più in mano ai bianchi discendenti degli europei, e questo ridefinisce la comprensione di sé di un paese come gli Stati Uniti, che è più di uno stato («una nazione con l’anima di una Chiesa», come disse G.K. Chesterton) e meno di uno stato (come si è visto dall’incapacità di elaborare una politica nazionale contro la pandemia).
Che cosa è l’America? Una delle democrazie più solide del mondo, che fu concepita su un sistema che a tutti i livelli (politico, economico, sociale, religioso) era basato anche su rigidi meccanismi di inclusione ed esclusione. Gli elettori che ora, nel secolo XXI, contribuiscono a determinare il risultato delle elezioni erano fino a pochissimi anni fa gli esclusi dal processo politico. La crisi della democrazia americana è un episodio nella crisi epocale dell’anglosfera: la fine ritardata del colonialismo anglosassone, questa volta sul piano interno degli Stati Uniti.
L’auto-narrazione mitica dei cattolici
Proprio ora che il paese ha eletto in Biden il suo secondo presidente cattolico dopo John F. Kennedy, questa crisi epocale pone domande scomode alla Chiesa americana.
I cattolici entrarono a far parte dei meccanismi d’inclusione (e di esclusione di altri) in un periodo che va tra la Seconda guerra mondiale e gli anni Sessanta. Ma buona parte dei cattolici si sono cullati fino a oggi nell’illusione della propria verginità, in nome di un’auto-narrazione mitica: gli immigrati poveri che ce l’hanno fatta, a dispetto e contro l’establishment protestante anticattolico.
Manca ancora una presa di coscienza a livello istituzionale delle responsabilità dei cattolici come parte integrante dell’establishment (in Canada e in Australia, per esempio, c’è stata una presa di coscienza più profonda).
C’è quindi un problema storico: la necessità di correggere, o per lo meno problematizzare, una storia dei cattolici (e di tutte le Chiese) che deve fare i conti con i peccati originali degli Stati Uniti: l’insediamento a spese delle popolazioni che vivevano nel continente prima dell’arrivo degli europei; lo schiavismo fino alla guerra civile e la segregazione razziale per almeno un secolo dopo; il ruolo degli USA nel mondo globale tra la guerra fredda e oggi.
Ma c’è anche un problema di teologia. Gli eventi degli ultimi mesi dimostrano che i cattolici americani devono contribuire a ricostruire – anche all’interno della Chiesa – una cultura e un ethos della partecipazione alla vita pubblica.
Le «culture war» nacquero negli anni Settanta-Ottanta sulle questioni della vita (sull’aborto specialmente), ma nel corso del tempo si sono trasformate anche da parte cattolica in un attacco all’idea stessa che la Chiesa possa vivere in una società multiculturale e multireligiosa.
Gli inviti ai cattolici a unirsi in difesa della democrazia non trovano ora terreno fertile, dopo anni di scetticismo a buon mercato contro le molte e delicate distinzioni richieste ai cattolici sulla scena pubblica: tra Chiesa e stato, tra politica e religione.
Una generazione di cattolici è stata addestrata a pensare esclusivamente in termini di «valori non negoziabili», il che è intellettualmente e spiritualmente un disastro, che può diventare un passaporto per l’estremismo.
Massimo Faggioli è storico della Chiesa e insegna teologia e studi religiosi alla Villanova University di Philadelphia (USA). Il suo ultimo vollume, Joe Biden e il cattolicesimo negli Stati Uniti, esce contemporaneamente in italiano (Morcelliana) e in inglese (Bayard) il 20 gennaio 2021.