Armi, armi, armi
Forse è passata un po’ inosservata, o quantomeno presto dimenticata, la richiesta fatta ad aprile dal ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, alla NATO: «Ho tre richieste per il consiglio atlantico: armi, armi, armi». Probabilmente avremmo tutti gradito una diversa triplice richiesta del tipo: pace, pace, pace. Certamente con un pragmatismo disincantato si potrà sempre dire che noi non siamo lì a farci ammazzare tutti i giorni, ma al tempo stesso occorre avere il coraggio di ammettere che le vie risolutive di un conflitto assurdo, generato da una mente malata (anche se poi, giustificato da un sottobosco di premesse, antefatti e altre riflessioni geopolitiche) si sono rivelate tutte inefficaci.
L’appello di Kuleba è stato prontamente accolto dagli Stati Uniti, che quando si tratta di impugnare le armi sono subito pronti a rispondere, tranne poi esecrare le stragi compiute nelle scuole da ragazzi armati o inscenare cortei strappalacrime con i reduci mutilati della guerra del Vietnam.
Tra le soluzioni abnormi, quella proposta dal procuratore del Texas, trumpiano di fede provata, dell’armare gli insegnanti. Ancora una volta la logica dell’arma contro arma. Ma d’altra parte che cosa si può pretendere da un paese che, nella versione corrente e divulgata, garantisce a tutti i cittadini il diritto di possedere delle armi, sancito dalla Costituzione? In realtà il testo a suo tempo approvato da Jefferson era diverso e recitava così:
«A well regulated militia being necessary to the security of a free state, the right of the people to keep and bear arms shall not be infringed»: «Essendo necessaria alla sicurezza di uno stato libero una ben organizzata milizia, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto». Il riferimento quindi era di tipo politico-sociale e faceva riferimento al diritto di possedere un esercito a fini di difesa.
Ma non voglio fare l’antiamericanista di facciata o di moda. Anche le altre nazioni infatti, pur con meno enfasi e risorse, si sono premurate di rafforzare la difesa armata dell’Ucraina.
La Chiesa a una "certa" distanza
Solo la Chiesa ha assunto una certa distanza. Dico «una certa» perché il forte messaggio antibellico di papa Francesco, ad esempio, non è stato proprio del tutto in linea con quello del suo delegato in Ucraina. Ma si sa, questa è un’antica diatriba interna al cristianesimo: l’eticità della legittima difesa è stata variamente interpretata anche se, evangelicamente, sarebbe più coerente lasciarsi uccidere pur di non uccidere anche quello che la tradizione chiama «ingiusto aggressore».
La storia della Chiesa è piena di queste contraddizioni e il gesto di Gesù che riattacca l’orecchio di Malco viene spesso accostato a quello della cacciata violenta dei mercanti dal tempio. Da don Milani a don Tonino Bello quelli che in molti riteniamo veri profeti di pace sono contrastati da un riduzionismo concettuale infarcito di «se» e di «ma».
E se, da un lato, è terminata la stagione etica che teorizzava la cosiddetta «guerra giusta», nel pensiero di molti la legittimità della guerra rimane. E qual è il confine da non superare perché una guerra difensiva sia accettabile? I «danni collaterali» dell’uccisione di civili? I danni di un’«ingerenza umanitaria» a volte fuori controllo? I danni di una «guerra chirurgica» che, a volte, fallisce l’intervento mirato?
Perché in fondo, come ebbe a dire provocatoriamente Giorgio Bocca, fare la guerra è bello, all’uomo piace, è stata la grande attività dell’uomo per alcuni millenni. Oggi vi sono appositi «giochi di guerra» (il cosiddetto softair) con reali simulazioni di un conflitto e persino lo sport ne reca traccia. Non me ne vogliano i tifosi, ma il linguaggio e le dinamiche del calcio sono tipicamente belliche: c’è un obiettivo da cannoneggiare, ci sono i difensori e gli attaccanti, le punizioni, gli avversari, i soldati delle opposte tifoserie che si fronteggiano, ecc.
La nota frase dello scrittore latino Vegezio «si vis pacem para bellum» trova così una paradossale affermazione (ma non conferma né condivisione). La vera preparazione della pace non può che consistere nella pace stessa, certo con le sue incertezze, i suoi disagi, le sue difficoltà, ma senza alcuna desistenza. Forse porgere l’altra guancia per il senso comune è troppo, ma quantomeno si può non rispondere con un altro pugno.
Quello che si vuole proporre non è un pacifismo da salotto e neanche una democratica ripartizione delle colpe. Quando si sente dire che bisogna «sedersi introno a una tavolo» per trattare (perché non si può fare in piedi o accovacciati all’orientale?) non significare distribuire equamente i torti.
Si sente spesso dire che non bisogna «mortificare la Russia». Certamente occorre rispetto per il popolo russo, che non meno di quello ucraino conta i suoi morti e le sue perdite economiche, ma questo non può comportare alcuna benevolenza verso chi ha scatenato tutto questo. Indubbiamente vi saranno poi dei torti secondari, ma quanto due coniugi si separano per l’evidente torto di uno dei due (come un tradimento ad esempio), è chiaro che poi nello sviluppo del conflitto vi saranno colpe anche del «coniuge innocente» ma questo non deve in alcun modo omologare i torti delle due parti.
È una questione complessa e delicata, certo, in cui il cervello dovrà avere un ruolo più importante dei muscoli. Saprà la saggezza umana realizzare tutto questo?
Salvino Leone, medico, è docente di teologia morale e bioetica alla Facoltà teologica di Sicilia e vicepresidente dell’ATISM. Tra le sue opere più recenti Bioetica e persona. Manuale di bioetica e medical humanities, Cittadella, Roma 2020.