Ai giovani insegniamo la coscienza
Nel sentire e vivere comune, l’educazione è generalmente compresa come una «questione» riguardante una fase specifica della vita – quella infantile-adolescenziale-giovanile – che coinvolge di conseguenza soggetti ben determinati.
Questa visione riduttiva del concetto contrasta con quanto ci viene continuamente ricordato dalla Chiesa. «L’educazione dei giovani, come anche una certa formazione ininterrotta degli adulti», sono infatti rese «insieme più facili e più urgenti dalle circostanze» e dalle «condizioni di tempo e di luogo» nelle quali gli uni e gli altri sono chiamati a vivere e operare (cf. Gravissimum educationis, proemio).
Pertanto ogni persona, man mano che cresce in età, è chiamata e dev’essere aiutata a «sviluppare armonicamente» le sue «capacità fisiche, morali e intellettuali, ad acquistare gradualmente un più maturo senso di responsabilità» in ordine alla propria vita «e nella ricerca della vera libertà»; nonché a vivere, quale frutto di «una positiva e prudente educazione», la sessualità, e a inserirsi attivamente «nelle diverse sfere dell’umana convivenza» così da aprirsi al dialogo con gli altri e contribuire personalmente all’incremento del bene comune (cf. ivi, n. 1).
Riconoscere l’opera di Dio su di sé: la crescita integrale
In questi ultimi anni, soprattutto nel contesto dei recenti Sinodi – prima quello sulla nuova evangelizzazione (2011-2012) poi quelli sulla famiglia (2013-2015) e sui giovani (2016-2018) – la Chiesa più volte ha interrogato se stessa, fermandosi a riflettere su questi temi inerenti la crescita della persona e la centralità e importanza della sua maturazione in riferimento alla propria vocazione e missione nel mondo (cf. Evangelii gaudium, n. 64; 160-175; Amoris laetitia, cc. IV; VI; VII; Christus vivit, nn. 81; 158-178; 247; 262).
Tra altri aspetti è emerso che l’impegno personale e comunitario in ordine alla crescita integrale non è riconducibile o riducibile alla sola formazione dottrinale. Piuttosto – come scrive papa Francesco in più luoghi del suo magistero – occorre primariamente «andare alla cosa più importante, la prima cosa, quella che non dovrebbe mai essere taciuta» (Christus vivit, n. 111), ovvero che Dio Padre è Amore e ama infinitamente e incondizionatamente ogni persona (cf. ivi, nn. 112-117), e che Cristo «l’eterno vivente» (cf. ivi, nn. 124-129), per amore ha dato se stesso sino alla fine per salvare e continuare a liberare ogni uomo (cf. ivi, nn. 118-123).
È a partire dalla conoscenza e assunzione di questa verità che emergere l’impegno doveroso e conseguente a «osservare quello che il Signore ci ha indicato, come risposta al suo amore, dove risalta, insieme a tutte le virtù, quel comandamento nuovo che è il primo, il più grande, quello che meglio ci identifica come discepoli: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15,12)» (Evangelii gaudium, n. 161).
Come noto la carità, quale «risposta all’iniziativa gratuita dell’amore di Dio» (Amoris laetitia, n. 311), «assume diverse sfumature a seconda dello stato di vita a cui ciascuno è stato chiamato» (Amoris laetitia, n. 313), ma il luogo nel quale tutto questo è «scoperto», «assunto» e giunge a «realizzazione» è comune a ogni persona, è la coscienza (cf. Gaudium et spes, n. 16), quello «spazio inviolabile in cui si manifesta l’invito ad accogliere una promessa» (Documento preparatorio del Sinodo sui giovani, II, § 1) e, da qui, l’impegno a «riconoscere l’opera di Dio nella propria esperienza quotidiana, nelle vicende della storia e delle culture in cui si è inseriti» (Documento finale del Sinodo sui giovani, n. 108; cf. 117; Instrumentum laboris, n. 116).
Recuperare l’interiorità
Con queste chiavi di lettura si può comprendere l’invito rivolto dal recente Sinodo sui giovani a recuperare nell’oggi il valore dell’intimità-interiorità. Un recupero necessario se si vuole raggiungere la dimensione più profonda della coscienza.
La «cura per l’interiorità comprende anzitutto tempi di silenzio, di contemplazione orante e di ascolto della Parola, il sostegno della pratica sacramentale e dell’insegnamento della Chiesa».
Ma necessita ancora di «una pratica abituale del bene, verificata nell’esame della coscienza: un esercizio in cui non si tratta solo di identificare i peccati, ma anche di riconoscere l’opera di Dio nella propria [vita, nella storia], nella testimonianza di tanti altri uomini e donne che ci hanno preceduto o ci accompagnano con la loro saggezza. Tutto ciò aiuta a crescere nella virtù della prudenza, articolando l’orientamento globale dell’esistenza con le scelte concrete, nella serena consapevolezza dei propri doni e dei propri limiti» (Documento finale, n. 108).
Antonio Donato, prete e religioso redentorista, insegna Teologia morale sistematica presso l’Accademia alfonsiana a Roma.