A proposito di Alfie. Quando il diritto soppianta la bioetica
Nella vicenda di Alfie ancora una volta (e non sarà l’ultima) assistiamo al solito battage di fronti contrapposti tra «buoni» che difendono la vita, sono contrari all’eutanasia, fanno marce ecc. e «cattivi» che abbreviano e non rispettano la vita, soprattutto di un bambino. Sarebbe ora di smetterla e di comprendere realmente quale sia il significato umano e cristiano della vita e della morte con le implicanze etiche a esse correlate.
I doni di Dio
La vita non è un valore assoluto (tanto che può essere subordinata a valori più alti come il bene altrui, il proprio bene spirituale, un bene fisico altamente positivo col rischio di perderla secondo il principio del «duplice effetto», ecc.). La morte d’altra parte andrebbe compresa una buona volta come un «dono di Dio», un secondo dono che ci dà oltre quello della vita. Quasi sempre invece abbiamo una concezione molto povera, di un Dio che dona la vita e poi se la riprende come se fosse una specie di prestito a termine. E se non dobbiano opporci al dono della vita (con l’aborto, l’omicidio, la pena di morte ecc.) perché dovremmo opporci al dono della morte quando è giunto quel (doloroso) momento?
Indubbiamente per esprimere un giudizio realmente fondato andrebbero conosciute meglio le effettive condizioni cliniche del piccolo Alfie (le relazioni mediche che ho letto non erano poi così esaustive, tanto che qualcuno parlava di una «sindrome di Alfie», e gli stessi medici hanno sbagliato nella previsione temporale della prognosi). Per cui la maggior parte di giudizi si sono basati sul tam tam mediatico, ripetendo quanto veniva letto su Facebook o sommariamente esposto in un TG.
Al di là di questo, spesso singoli credenti (certamente in buona fede e sinceramente orientati a difendere la vita) o gruppi e movimenti di matrice cattolica tendono a essere, come si suol dire, «più realisti del re» o «più papisti del papa», dimenticando quanto lo stesso magistero in documenti di esemplare lucidità ha formulato. Così nella Dichiarazione sull’eutanasia della Congregazione per la dottrina della fede del 5 maggio 1980, che invito a rileggere integralmente, si afferma che «è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita». Esattamente quello che si sarebbe verificato per Alfie. Certo con un margine di dubbio per il giudizio morale e la responsabile decisione di coscienza, ma come sappiamo bene la coscienza non è infallibile, e in ogni caso non si trattava di «salvare una vita», quanto piuttosto di differirne a breve la morte. Ma il nostro dovere, di fronte a casi del genere, può essere quello di prolungare la vita, non l’agonia.
Cercare il bene del paziente
In tutto questo va assolutamente compreso e rispettato il desiderio dei genitori, per cui ogni istante di vita del proprio bambino è un attimo di vita in più che lo tiene accanto a loro, ma forse proprio per questo andrebbe anche spiegato cosa possa «essere meglio» per il proprio figlio. Forse la vita, ma forse anche il sereno distacco da essa se, in ogni caso, si tratta di una situazione irreversibile.
Nei loro confronti, come ha giustamente rilevato una pediatra del Bambin Gesù, c’è stata una carenza di «alleanza terapeutica», che avrebbe certamente saputo orientarli e rendere più accettabile la loro sofferenza. Proprio per questo era opportuna una valutazione prudenziale, meno chiassosa, più rispettosa del volere dei genitori certo, ma non per questo totalmente dipendente da essi. Tuttavia non sul piano giuridico, quanto su quello etico.
I genitori e la loro tutela nei confronti del minore hanno per obiettivo il suo best interest, che nel caso in oggetto nessuno può avere la presunzione di dire quale fosse: forse non insistere con un’intensificazione clinica pressoché irrilevante sul miglioramento o anche solo sul mantenimento accettabile della sua esistenza biologica. Il rispetto per la persona va molto al di là di una semplice e presunta intangibilità biologica.
In ogni caso è dura e arida questa intromissione giuridica nella vicenda (anche in Italia non siamo messi molto meglio), ma è la dimensione invadente di una bio-giuridica che sta soppiantando la bioetica. Tutto questo non si supera con le marce, ma con una riproposizione serena e condivisa dei valori etici.