A chi appartiene l’embrione?
Fa molto discutere la recente ordinanza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (25 febbraio 2021) in merito a una vicenda, destinata prima o poi a ripresentarsi, che circonda l’impianto di un embrione congelato.
Una coppia aveva fatto ricorso, senza esito positivo, alla procreazione medicalmente assistita, lasciando alcuni embrioni crioconservati. Si prospettava, quindi, la possibilità di un secondo tentativo di impianto, voluto dalla madre ma non dal padre, che nel frattempo si era separato dalla moglie.
Quale valore giuridico dare alla volontà dei due? Sul piano operativo realizzare la volontà dell’uno escludeva ipso facto quella dell’altro. Il Tribunale ha deciso di assecondare la richiesta della donna, procedendo quindi all’impianto dell’embrione che l’ex marito, invece, rifiutava. La ragione, a detta dei giudici, si basa sull’art. 6 comma 3 della legge 40/2004, che così recita: «La volontà [di procedere alla procreazione assistita] può essere revocata da ciascuno dei soggetti indicati dal presente comma fino al momento della fecondazione dell’ovulo». Quindi non dopo.
Bisogna, tuttavia, considerare che la legge vietava la crioconservazione degli embrioni, per cui all’atto della sua formulazione non si sarebbe verificato il caso in oggetto. Questo è stato possibile in virtù della sentenza 151/2009 della Corte costituzionale che, a parziale modifica della legge, lo consente.
Ordine giuridico ed ordine etico
Sappiamo bene la dialettica esistente tra l’ordine giuridico e quello etico. Nel caso in oggetto tale contrasto si fa evidente e problematico. Indubbiamente sul piano del dettato normativo i giudici hanno agito nel rispetto della legge. Il problema però, sul piano etico, si complica di fronte alla concezione dell’embrione e della sua identità. Se si tratta di vita umana individuale, meritevole di piena tutela legale, la possibilità di offrirgli l’ulteriore sviluppo in utero è indubbiamente prioritaria rispetto a quella di «abbandonarlo» in un congelatore. In tal senso le ragioni della donna avrebbero, quindi, un duplice sostegno: giuridico ed etico.
In realtà quando la legge vietò il congelamento la ratio fu certamente quella di ritenere la sussistenza di vita individuale fin dalla fecondazione. Al tempo stesso, però, credo si paventassero possibili scenari come quello in oggetto. La storia, d’altra parte, ricordava il famoso caso dei coniugi Rios che, in un incidente aereo, lasciarono alcuni embrioni congelati «orfani», creando un precedente non solo etico ma anche giuridico. A chi «appartenevano» questi embrioni? Ed era possibile una proprietà sugli esseri umani? Solo gli schiavi erano ritenuti «proprietà» di un altro essere umano.
La riflessione etica
Anche se può essere condivisibile la scelta della donna di lasciar vivere nel suo utero gli embrioni, cioè di fatto i suoi figli, lasciano perplesse alcune argomentazioni del suo avvocato, in cui parla del «diritto assoluto della donna di utilizzare embrioni creati con il coniuge».
Forse il discorso andava spostato, più che su un assoluto diritto di autodeterminazione (analogo, d’altra parte, a quello invocato per legittimare l’interruzione volontaria della gravidanza), alla volontà di accogliere una vita concepita insieme al coniuge anche se questi, adesso, palesava la sua volontà di non farla vivere.
D’altra parte anche il parere del presidente di Scienza&Vita, del tutto condivisibile nell’approvare la scelta dei giudici, lascia un po’ perplessi quando dice che il figlio «in uno stadio embrionale non può che aspirare a proseguire il suo sviluppo biologico». Un embrione di poche cellule non aspira proprio a niente! Siamo noi che attribuiamo al suo status di persona la doverosità di mantenerlo in vita e consentire il suo ulteriore sviluppo.
Ma attenzione! Anche qui sorge un problema che si era già posto quando ci si interrogò su che cosa fare delle migliaia di embrioni crioconservati nel mondo. Paradossalmente proprio alcune frange, per così dire maggiormente «conservatrici» in ambito morale, suggerirono di lasciarli morire in quanto tenuti in vita artificialmente con «mezzi straordinari». Potrebbe applicarsi questo stesso criterio al caso in oggetto? Onestamente credo di no. La crioconservazione, almeno nel caso specifico, aveva solo la funzione di «sospendere» l’esistenza di un embrione in vista di un più o meno prossimo impianto.
Ma si comprende anche la posizione del marito, di per sé non contraria alla vita del figlio, per la quale però non sente di volersi prendere le sue responsabilità di padre dal momento che quel progetto di famiglia nella quale si sarebbe dovuto inserire non c’è più.
Ma nella misura in cui riteniamo non vi siano graduatorie ontologiche tra le vite umane e che quella dell’embrione non valga meno di quella già nata (anche se la relazionalità psicologica con i genitori è ben diversa), si tratta di un bambino che aveva voluto e, solo per circostanze accidentali, non è stato possibile ottenere prima.
Certo nella nuova situazione esistenziale si ritrova ad avere un figlio «attualmente» non voluto, difficile da percepire come tale ma tuttavia esistente, sia pure allo stadio di embrione. Difficile da percepire come tale ma tuttavia sussistente. D’altra parte la scelta di questo padre diventa perfettamente comprensibile di fronte alla legittimazione dell’aborto volontario, che ha introdotto il «diritto» a non volere un figlio già concepito.
Rimane, in ogni caso, l’amarezza di un figlio che vivrà «contro» la volontà del padre e la cui nascita è stata affidata a un tribunale più che all’amore della coppia. Ma l’uso delle tecnologie riproduttive, al di là delle indubbie e apprezzabili conquiste, comporta anche questo.
Salvino Leone è medico, docente di Teologia morale e bioetica alla Facoltà teologica di Sicilia e vicepresidente dell’ATISM.