A 50 anni dall’Humanae vitae: con la gioia dell’amore
Humanae vitae approda alle case, alle famiglie, alle coppie nel luglio 1968 esibendo il suo stile disarmato.
Disarmato nell’interrogarsi sulla vita e sulla felicità degli uomini toccate così da vicino, nel munus gravissimum di trasmettere la vita, dal «recente evolversi della società» (n. 1); disarmato nel desiderio di restituire la grandezza dell’amore coniugale e nel riconoscere che «gli uomini del nostro tempo sono particolarmente in grado» (n. 12) di comprenderlo nel suo senso di mutuo e vero amore ordinato all’altissima vocazione dell’uomo alla generazione; disarmato, ancora, nell’ingaggiare la «paternità responsabile» in «un ordine morale chiamato oggettivo» (n. 10), in quanto ordine stabilito da Dio di cui la retta coscienza è vera interprete e la Chiesa custode.
Teologia, amore e vita...
Si percepisce come un’insita vulnerabilità nella domanda profondamente teologica che percorre l’enciclica: la teologia rischia di mostrarsi debole perché «cede» all’attualità o perché non riesce a interpretarla correttamente?
Come sappiamo, la reazione all’enciclica fu scatenata, nei pro e nei contro, agguerritamente imbricata pressoché su un unico tema, la contraccezione, via via diventata, già nel Concilio, il punctum saliens dell’irta questione della sessualità nel suo valore e significato nella e per la vita di fede.
In mezzo a tanto clamore si può dire che l’Humanae vitae sia stata uno dei pochissimi documenti pontifici che ha raggiunto direttamente il popolo sul quale irrompeva un vorticoso cambiamento sociale e soffiava l’aria nuova immessa dal Concilio, che della categoria «popolo di Dio» ha fatto il significante per dire la Chiesa.
Tante, dunque, sono le ragioni che fanno dell’Humanae vitae un documento capitale, di cui val la pena celebrare l’anniversario dei 50 anni, che in questo tempo cadono rallegràti dall’esortazione apostolica Amoris laetitia, frutto di due Sinodi. Per intenderci: l’«allegria» di cui parliamo ha la forma disegnata da quelle antiche parole che ci ricordano come «nutre la mente solo ciò che la rallegra».[1]
Da questo livello ci fa piombare su ben altro selciato la platea sconfinata di siti, blog, social ecc. dove opinionisti travestiti da sfegatati combattenti per un «qualcosa» impunemente chiamato «verità», o «vera dottrina», o amenità del genere, spara alla testa – rectius «mente» – a colpi di cecchino… Confidando che gli spari siano a salve, come in realtà succede, è necessario, unde laetatur, continuare nel compito di pensare e di «metterci il cuore» su questioni come generazione e famiglia, poiché la posta in gioco è veramente alta: si tratta di affetti, legami, sessualità, corpi.
Amoris laetitia e Humanae vitae: storie parallele
Nel raccoglierla, l’Humanae vitae scruta il munus gravissimum di generare la vita non rinunciando ad ascoltare l’eco lontano, oggi muto, dell’accordo – un tempo posto come possibile – tra etica e felicità, unitamente agli altri grandi dimenticati della morale: i fini, ai quali Paolo VI àncora i principi dottrinali.
Siamo in quella linea sapienziale[2] che salvaguarda il nesso inscindibile tra sessualità, sponsalità e generazione. Ed è questo che, riscoperto nella prospettiva aperta dall’Amoris laetitia, presidia la «norma» dal rischio di soccombere alla patologia sillogistico-deduttiva della valutazione morale che, illusa della propria efficienza «applicativa», si richiude funestamente in sé stessa vantandosi anche di saper costruire virtuosismi canonici quando c’è da salvare il salvabile.
L’Amoris laetitia raccoglie e sviluppa l’antropologia fondamentale dell’Humanae vitae, mostrandola attraverso l’impareggiabile inno alla carità di 1Cor 13 e sottolineando la preziosità del dono fatto ai genitori di «scegliere il nome col quale Dio chiama ogni suo figlio per l’eternità» (Amoris laetitia, n. 166). Notiamo per inciso come un simile programma, lungi dal mantenere elementi essenziali della coniugalità e della generazione in uno spazio tanto meticolosamente circoscritto quanto, alla fine, non del tutto scomodo, proietta sposi e famiglie in una storia di testimonianza e di donazione molto impegnativa e, nel tempo, tutt’altro che garantita.
In conclusione vorrei riservare un brevissimo accenno ai rapporti tra teologia e magistero, la cui autorevolezza, anche nel momento in cui statuisce in modo definitivo, non si colloca né sopra, né fuori, ma dentro la Chiesa,[3] poiché «è nella vita di comunione della Chiesa che il magistero esercita il suo fondamentale ministero di vigilanza».[4]
[1] Agostino d’Ippona, Confessioni, XIII, 27, 42.
[2] M. Chiodi, «Rileggere Humanae vitae (1968) a partire da Amoris laetitia (2016)», Pontificia università gregoriana, 14.12.2017, nel ciclo di conferenze «Il cammino della famiglia a cinquant’anni da Humanae vitae».
[3] Ivi, nota 2.
[4] Commissione teologica internazionale, Il sensus fidei nella vita della Chiesa, 25.8.2014; Regno-doc. 19,2014,632. I passaggi riportati sono tratti dai nn. 74 e 77 del documento.