Volti di Chiesa nei giorni della pandemia
Una teologa della Chiesa greco-cattolica rumena riflette sul modo in cui si è reagito alla sospensione delle liturgie, sulle occasioni mancate e su quelle che ancora siamo in tempo a cogliere.
I tempi di crisi rivelano quello che portiamo dentro, come persone e come comunità. Lo abbiamo sperimentato in tanti durante questo periodo. Pure chi all’inizio ha manifestato una certa bravura o trovato un modo di anestetizzare il proprio vissuto. I mostri delle nostre paure (individuali o collettive) si sono presto o tardi svegliati. Abbiamo anche avuto modo di constatare in noi e negli altri un rinforzamento di certe inclinazioni e comportamenti, spesso non i migliori. Siamo stati in ogni caso provocati a riconoscere i contrasti che ci caratterizzano e a farci i conti.
Come l’intera società, anche la Chiesa in questo periodo si è trovata a confronto con sé stessa; ha manifestato le proprie angosce, le proprie consuetudini, le proprie (in)sicurezze ecc. Questi sono infatti elementi che anche a livello comunitario tendono ad acutizzarsi, più o meno consapevolmente, nei tempi difficili, al pari delle posizioni antagonistiche. E l’immagine che la Chiesa offre di sé stessa ne risente; forse anche perché siamo tutti noi a formarla e a portarci dentro qualcosa di tutto questo.
Quali immagini di sé ha manifestato la Chiesa al tempo della pandemia? Con quale siamo più in sintonia? Proverò a offrire una prospettiva, a partire da alcuni fatti la cui selezione è inevitabilmente soggettiva e tenendo conto che la paura può deformare la percezione della realtà e le conseguenti risposte, ma ciononostante questi fatti restano sintomatici per i vari orientamenti ecclesiali, e vanno pertanto analizzati, dai propri aderenti prima di tutto, con la consapevolezza che sono strettamente collegati alla prospettiva che proponiamo su Dio stesso. Essi infatti ci invitano a riflettere su ciò che la Chiesa è e su ciò che può diventare, e a metterci personalmente in discussione, in gioco, in cammino. Senza la pretesa di aver raggiunto la meta.
Tentazione del potere e chiamata al servizio
Direi che un contrasto essenziale che è emerso è quello tra la tentazione del potere e la chiamata al servizio. La prima si è manifestata fin dall’inizio: basta ricordare il pronto intervento di un vescovo per cristianizzare il diffusissimo slogan: “Andrà tutto bene”; un messaggio ampiamente rilanciato, che ha rischiato di apparire come lo spasimo di una Chiesa che sentiva perdere qualcosa della sua rilevanza sociale nel contesto della sospensione dei servizi pubblici e che si è trovata subito indotta a esercitare il proprio potere in un altro ambito, impossessandosi del linguaggio più comune. Anche a costo dell’essenza del Vangelo e della realtà della croce. Anche i toni rivendicativi di certi vescovi riguardo alla riapertura delle chiese nel momento della transizione verso la fase due dell’emergenza sanitaria difficilmente si potrebbero conciliare con lo spirito del cristianesimo. Ma che prospettiva su Dio stesso nasconde tutto questo? Forse quella di un Dio dominatore che ci ha delegato qualcosa della sua onnipotenza e della sua onniscienza?
E se l’opportunità di questo periodo fosse stata invece per tutta la Chiesa proprio quella di ritrovare la vocazione al servizio e la via della mitezza, a partire della cooperazione con le autorità, in spirito di obbedienza? L’obbedienza autentica, insegnataci da Cristo, non quella servile o strumentale a ottenere poi dei privilegi. Seppur dolorosa per tanti, la chiusura delle chiese (come il suo prolungamento) poteva essere vissuta come la partecipazione ai sacrifici che tutti hanno accettato per il bene comune.
In quanto al servizio, non sono mancati quelli che, anche a nome della fede, hanno assunto volontariamente vari incarichi a favore del prossimo, a partire dal più debole. Uomini e donne che hanno continuato a compiere il proprio lavoro nel campo medico, educativo, sociale, amministrativo, pastorale ecc. con dedizione, trasformando il tutto in preghiera. Persone che, piuttosto che rimpiangere la vita sacramentale, hanno dato la propria vita per gli altri. Non che i sacramenti non siano importanti e non nutrano la nostra esistenza. Ma, in queste condizioni (come sempre), tutto poteva diventare eucaristia e ognuno di noi benedizione per gli altri.
Cosa dà consistenza ai riti?
Questo periodo sarebbe stato una buona occasione per ricordarci ciò che ci unisce nel sacerdozio comune. Ma, paradossalmente, la cessazione dei servizi pubblici religiosi è diventata l’occasione di un’espansione celebrativa. Più che mai la Chiesa è sembrata definirsi tramite il rituale/-ismo. Non soltanto perché le funzioni liturgiche hanno invaso lo spazio virtuale – fino ad un certo punto con grande utilità. Ma anche perché i mezzi di comunicazione sono diventati lo spazio per molte devozioni, supplendo, certo, l’assenza delle liturgie usuali, ma anche favorendo nei fedeli un certo consumismo spirituale a scapito di altri elementi che avrebbero potuto nutrire la fede e che valeva la pena riscoprire. Il tutto è servito probabilmente anche a una maggiore identificazione dei preti con il proprio ruolo di celebranti, visto che – con lodevoli eccezioni – essi si sono preoccupati più che altro di assicurare la Messa per i credenti. E se invece avessimo tutti colto l’occasione per riflettere su cos’è che dà consistenza ai nostri riti?
Nemmeno le celebrazioni papali del Triduo pasquale sono state esenti da un certo ritualismo. Per fortuna ha rimediato in gran misura la semplicità delle messe mattutine in Santa Marta, che sono sembrate più delle altre consone allo stile di Francesco. Lì è stata decisamente proposta la centralità della Parola di Dio che ci chiama tutti alla conversione; coerente con le proprie scelte precedenti, Francesco ha presentato al mondo intero l’immagine di una Chiesa debole, in balia della tempesta come tutti. Specialmente nella preghiera del 27 marzo, ma anche ogni singolo giorno. Una Chiesa tutt’altro che giovane, forse un po’ claudicante, la cui forza sta tutta nella preghiera e nella fiducia nel Signore.
Il rischio di un’identità chiusa
Ed è il mondo intero che il papa ci ha insegnato a comprendere nell’orazione, complessivamente e pezzo per pezzo, in questi due mesi di messa aperta a tutti, come nelle altre occasioni. È con il mondo intero che ci ha invitato a pregare il 25 marzo e poi il 14 maggio. Ma siamo pronti a cogliere il significato di tale apertura, a coltivarla nello spirito della fraternità? O richiuderemo velocemente tutto negli schemi consueti? Quest’ultima è un’opzione a portata di mano, come abbiamo potuto vedere, per esempio, il 25 marzo dopo la preghiera del Padre nostroquando, tramite la recita successiva dell’Angelus e del Rosario trasmessa dalla basilica di san Pietro, un evento di grande portata ecumenica ha rischiato di essere prontamente cattolicizzato. Vista la congiuntura, le meditazioni proposte avrebbero potuto centrarsi, con una maggiore sensibilità verso le altre confessioni, sul mistero dell’Incarnazione. Sono diventate invece una preghiera mariocentrica e, un’occasione di riaffermare anche altri elementi fortemente identitari: il papato, un dogma che ha suscitato controversie, una rivelazione privata ecc. Ci possiamo chiedere in che misura la premura per la propria identità può impedire la custodia della fratellanza e quale immagine sulla paternità divina suppongono.
Il tempo delle scelte
Al di là dei nostri limiti, a ognuno di noi sta adesso scegliere con quale immagine di Chiesa vogliamo identificarci dopo questo periodo e, anzi, quale Chiesa vogliamo costruire: una Chiesa del potere e dei privilegi o una del servizio, della disponibilità; una Chiesa definita esclusivamente dalle sue cerimonie o una nutrita anche dalla Parola di Dio, dalla preghiera silenziosa, dalla carità; una Chiesa rinchiusa nelle proprie sicurezze oppure una aperta a tutti in spirito di fratellanza. Perché se i tempi di crisi sono in verità rivelatori per quello che siamo, come individui e comunità, sono ugualmente decisivi per ciò che diventiamo.