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Il Regno delle Donne

Voglio un vestito da principessa

Nell’ultimo cartone animato Disney le eroine dei lungometraggi precedenti, da Biancaneve in poi, depongono i loro sontuosi o succinti abiti per sceglierne altri più comodi e adatti a ciò che sentono. Che ne sarà allora di uno dei più diffusi travestimenti di carnevale, e di quello che significava?

Mentre tante bambine sono pronte a indossare, nelle feste e nelle sfilate di carnevale, un vestito “da principessa”, pare che le principesse abbiano deciso di vestirsi come noi. Lo abbiamo visto, nelle scorse settimane, in Ralph spacca Internet, l’ultimo cartone animato firmato Disney: dopo l’incontro con Vanellope (co-protagonista della pellicola e rappresentazione metaforica del presente), Biancaneve, Cenerentola, Aurora, Ariel, Belle, Jasmine, Pocahontas, Mulan, Tiana, Rapunzel, Merida, Anna, Elsa e Vaiana decidono di appendere i sontuosi (in alcuni casi succinti) abiti al chiodo e di optare per il più pratico accostamento di pantaloni e t-shirt. In altri termini, di riappropriarsi in maniera simbolica dei loro corpi denunciando, seppur con estrema delicatezza, l’eccessiva rigidità in cui rischia di sclerotizzarsi un sistema di genere spesso cieco di fronte alla diversità nonché a lungo sminuente nei confronti del soggetto femminile.

Molta bellezza, e poco altro

Basti pensare a quanto messo recentemente in luce dalle linguiste statunitensi Carmen Fought e Karen Eisenhauer, che hanno analizzato i dialoghi di 12 lungometraggi animati Disney (da Biancaneve a Frozen): fino almeno agli inizi degli anni ’90 più della metà dei complimenti rivolti ai personaggi femminili si riferiva essenzialmente alla bellezza, mentre soltanto il 10% circa a una qualche abilità.

Anche perché di particolari abilità, di fatto, le principesse Disney non ne hanno possedute per molto tempo. Più che altro cantavano, pulivano, piangevano, si sacrificavano o semplicemente sospiravano sperando nell’arrivo di un principe azzurro che le trovasse avvenenti, le salvasse e infine le sposasse. Inoltre, per anni e anni, la rappresentazione del corpo femminile veicolata attraverso i cartoon non ha lasciato molto spazio all'immaginazione o alle alternative, dipingendo un mondo fatto di contrapposizioni di genere fortemente stereotipate, di cui la dicotomia gonna/pantaloni non ha rappresentato che la punta dell'iceberg.

Un modello in cambiamento

Certo, un’evoluzione nel racconto del femminile, nel corso del tempo c'è stata; ma seppure più autonome, intelligenti, ambiziose ed emancipate, fino a Ralph spacca Internet non s’era mai osato davvero tanto; le principesse non avevano mai tentato di autodeterminarsi partendo dall’ascolto dei loro, più intimi, bisogni e desideri. È stata dunque una scelta audace quella della Disney, già impegnata da alcuni anni nella campagna “Dream big, Princess”, lanciata nel 2016 con l’obiettivo di esortare le bambine/principesse a sognare sempre più in grande, trasmettendo loro l’esplicito messaggio che non c’è niente che, in quanto femmine, non possano fare. Ed è vero, verissimo.

Ma la nostra società sarà pronta, tra una manciata d’anni appena, ad accogliere questo esercito di principesse libere, consapevoli e indipendenti? Saprà offrire loro quello che sognano? Essere all’altezza delle loro aspettative?

La società è pronta per le nuove principesse?

In Italia, nonostante prestazioni accademiche mediamente migliori, le donne fanno più fatica a inserirsi nel mondo del lavoro, a rimanerci e a fare carriera, perché – dimostrano gli studi – a parità di curriculum un uomo ha più probabilità di essere scelto. A parità di competenze un uomo ha più probabilità di essere promosso. E anche quando una donna riesce a posizionarsi a livello dirigenziale, guadagna in media 9.000 euro lordi in meno rispetto al collega uomo.

Di fronte a una Rapunzel o Anna qualsiasi le aziende trattengono il fiato: mentre valutano la sua candidatura in fase di selezione, per il timore che resti incinta; e, in seguito all’assunzione, nella speranza che ciò non succeda. Dall’altro lato, invece, per una Biancaneve non è affatto semplice gestire carriera e famiglia insieme, in un Paese ancora incline a pensare che il lavoro di cura debba essere per lo più appannaggio femminile e decisamente carente in materia di politiche di conciliazione. Tutte situazioni, quelle sopra descritte, che ovviamente si aggravano per difficoltà incontrate e discriminazioni subite se, oltre ad essere donne, si è per caso Pocahontas, Tiane, Mulan o Meride, cioè ad esempio migranti o non eterosessuali.

Per una sorellanza nella libertà

Vestirsi da principessa nel 2019, di primo acchito, potrebbe sembrare allora anacronistico, ma in realtà non è forse un atto profondamente rivoluzionario? Potrebbe rappresentare la messa in scena di un’ideale sorellanza che lega il passato al presente, il fantastico al reale, il gioco alla consapevolezza, ricordando e ricordandoci chi siamo e da dove veniamo. E che solo impegnandoci insieme possiamo difendere i nostri diritti e promuovere una società capace di valorizzare le differenze. Che sia in gonna, minigonna o in jeans poco conta, alla fine. Purché si tratti di una nostra, libera scelta.

 

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