Teresa d’Ávila non è un’eroina
Della santa che ricordiamo ogni 15 ottobre tutto si è detto: teologa e madre spirituale ma anche simulatrice dalla dubbia morale; isterica e serafica vergine; eretica e modello della Riforma cattolica. Della sua memoria si sono appropriati in tanti, da Francisco Franco a Podemos.
Ma lei, Teresa de Jesús, vive in quello che tenacemente ha voluto scrivere di sé, conoscendosi nell’atto del narrarsi.
* Marina Abramović ha dedicato a Teresa d’Avila una performance video in tre atti che si svolge, per l’appunto, nell’immaginaria cucina del suo convento. L’artista apre così delle finestre sulla sua vita quotidiana, punteggiata di “piccoli miracoli”.
Il 15 ottobre del 1565 nel convento di Alba, un villaggio castigliano venuto su dalle limacciose sponde del fiume Tormes, moriva Teresa d’Ávila (al secolo Teresa Sánchez de Cepeda y Ahumada).
Accade spesso che la morte livelli le arricciature. Tutte le contraddizioni di una presenza viva e fuggevole vengono risolte, dal terriccio o dall’urna, in immagini edulcorate e chiare. Talvolta, però, è in un guizzo registrato dalla coda dell’occhio che ci sembra di vedere un lampo ancora di vita. Solo quello continua, nonostante le polveri dei secoli, a dirci qualche cosa.
Teresa de Jesús non rappresenta un’eccezione, perché con la morte della persona è nata l’eroina. Ma gli eroi appaiono sempre lontani nella loro monolitica perfezione, idoli da venerare o compatire; le persone, invece, muovono cose complesse. Dunque è cercando la persona, non l’eroina, che vorrei voltarmi oggi a guardare Teresa.
Un simbolo per opposte bandiere
Teresa d’Ávila fu una delle donne più enigmatiche della storia occidentale. Quando era in vita, la gente di Castiglia si divideva tra chi la considerava una madre spirituale, o una brillante teologa e mistica, e chi invece la riteneva una simulatrice di dubbia morale e di natali ancor peggiori ‒ si diceva che avesse avi ebrei, marranos.
Con una sorta di effetto valanga, tali discrepanze hanno acquisito peso lungo la corsa verso la contemporaneità. Dalla morte ai giorni nostri, le rifrazioni di una stessa donna si sono moltiplicate fino a dare esiti esasperati: da eretica a difensora ultraortodossa del cattolicesimo, «antemurale della Controriforma» (dice Rosa Rossi); da ebrea perseguitata a modello di razza ispanica; da donna incolta e rozza a scrittrice modello; da isterica a serafica vergine, a mistica passionale, erotica e femminista.
Anni fa un volantino di Podemos, partito della sinistra radicale spagnola, ritraeva Teresa come una femminista ante litteram, fiera e coriacea. Ma la Spagna del generalísimo Francisco Franco aveva venerato in lei la quintessenza dell’ispanicità e della devozione verso la Chiesa romana.
Nessuna di queste immagini è del tutto illusoria. Piuttosto, sono frammentarie: dettagli che tirano da ogni lembo una tela nell’insieme più complessa.
Un corpo smembrato in reliquie
Se dovessimo individuare un momento nel quale Teresa d’Ávila ha cessato di essere la donna per diventare un emblema, potrebbe essere l’attimo immediatamente successivo alla sua morte. Ce lo racconta Ana de San Bartolomé, che era al suo capezzale nel momento del trapasso. Le parole di Ana evocano un vorticare di presenze intorno al corpo di Teresa ‒ i duchi di Alba, il padre provinciale, addirittura il re. Comincia allora una lunga appropriazione che, con una piega grottesca, non resta sul piano della metafora.
Quando Teresa era morta, il 15 ottobre del 1582, la sepoltura era stata fatta in fretta e furia e in modo che il cadavere non potesse essere trafugato. Ma tanti vedevano in Teresa de Jesús già una santa, e bisognava toccare con mano il suo corpo incorrotto; dunque la riesumazione non si fece attendere troppo e, seghetto alla mano, si diede inizio a una mitizzazione lunga mezzo millennio: cominciava, così, la fabbricazione delle reliquie.
Privato del mignolo, che il padre Gracián aveva asportato per tenere con sé, il suo braccio sinistro sarebbe finito nelle mani del caudillo il quale l’aveva recuperato «dal bottino di un marxista» (dice in un’intervista del 1975). Oggi, dei due piedi uno è a Roma insieme alla mandibola superiore, l’altro in Spagna come alcune parti del tronco, l’occhio sinistro, il cuore e altre dita.
Di Teresa de Jesús resta un corpo mitico smembrato come Osiride o Penteo. Ci resta una fantasmagoria di proiezioni, tutte a loro modo figlie di una verità parziale, spinte al massimo della saturazione.
Una donna che riscrive se stessa
Ci restano, però, anche molte scritture. Alcune sono talmente celebri che basta menzionare le poesie, o il Libro della vita, o Le mansioni del Castello Interiore per evocare un grande pezzo della letteratura spagnola e europea. Sono meno conosciute, invece, certe scritture minori: la corrispondenza, per esempio, che occupò una parte molto importante della sua vita.
E forse è proprio entrando in questo mondo privato, dove ci si deve muovere come ospiti, che riusciamo a scorgere la persona oltre il mito. La vediamo nella malattia che la costringe a letto, in come coltiva gli affetti o nell’affanno dei viaggi fra un convento e l’altro, e nei capogiri che le dà la burocrazia cinquecentesca.
Soprattutto, credo, la vediamo in un sentimento talmente elementare da risultare eterno: l’affezione verso una cosa propria. In una lettera del 1565 a padre García de Toledo, il suo direttore spirituale, Teresa parla della prima redazione del Libro della vita. L’aveva terminata tre anni prima e chiede di copiarla perché vuole che sia data all’asceta Juan de Ávila. Da quel momento, il manoscritto passa di mano in mano, qualcuno tralascia di consegnarlo al padre Ávila, qualcun altro lo presta o semplicemente lo dimentica in un angolo di casa. Con un’anticipazione inquietante di ciò che sarebbe accaduto al suo corpo, il libro è spaginato, logorato dalle molte mani che su di esso intervengono e, alla fine, viene perduto.
Ma accade allora qualcosa di notevole: con amore e fatica, Teresa si mette a riscriverlo da capo e così nasce il Libro della vita come lo conosciamo ‒ un’opera che ha un successo enorme e spinge generazioni di donne a raccontarsi (e reinventarsi) attraverso la scrittura di sé.
Nessuna eroina tragica avrebbe avuto forse la stessa caparbia, perché il destino degli eroi è in mano al fato. Quello delle persone, Teresa lo sapeva, no. Da qui l’entusiasmo di scoprirsi, conoscersi e dirsi attraverso la scrittura.
È in questa vita che si è scelta, costruita parola per parola, che Teresa c’è ancora: un’ombra scura china sullo scrittoio in cui vediamo, come di sfuggita, quel che resiste perfino alla morte.