Se qualcuno ci chiederà: “Voi giovani dove eravate?”
Al recente seminario del Coordinamento teologhe italiane si è parlato di cittadinanza inclusiva. Cosa significa per l’oggi e il domani delle nuove generazioni? La riflessione di una giovane teologa.
“Cittadinanza inclusiva: il ruolo delle teologie” è il tema che il Coordinamento teologhe italiane (CTI) ha scelto per il seminario svoltosi a Verona il 4 maggio scorso. Nella prima parte della giornata si sono confrontate in una tavola rotonda – inserita nel programma del Festival Biblico dedicato quest’anno alla “Polis” – le prospettive di don Rosario Giuè, suor Alessandra Smerilli e Stella Morra. Condivido qui ciò che le loro voci hanno suscitato in me, giovane teologa.
Più che le sicurezze, il coraggio di ripartire
Sarà il clima politico attuale, sarà che una certa maturità nella vita e negli studi invita ad avere più coraggio. Per cosa? Per pensare che, come nella storia si è fatto, così anche noi abbiamo bisogno di articolare parole e operare concretamente nella società in cui viviamo.
Durante i miei studi teologici ho lavorato per qualche anno nella scuola e ascoltavo le voci dei ragazzi: «Non abbiamo futuro, hanno polverizzato i nostri sogni, non ci hanno lasciato niente in cui sperare…». Don Rosario Giuè ha fatto memoria di persone che, non avendo un presente da abitare, lottavano per un futuro, lottavano per cambiare il presente guardando in alto, perché il sogno c’era. Ma oggi? Dobbiamo incendiare i cuori di queste generazioni, forse tenendo conto che il rapporto tra sogni e tempi è diverso rispetto alle generazioni nate negli anni Cinquanta e Sessanta. Forse bisogna partire dal presente, e far prendere coscienza di quante cose nella storia sono cambiate e, nell’ampio sguardo storico, si potrebbe dire verso un meglio.
Ma cosa significa concretamente, e per i giovani d’oggi, partire dal presente, non avendo uno slancio che parte dal desiderio di vivere dei sogni? Come partire?
Se ho sotto gli occhi lo scenario politico attuale, in diversi contesti europei e fuori Europa, sicuramente non dalla costruzione di muri, da ciò che distingue chi hai requisiti per essere dentro e chi non li ha, e quindi è costretto a stare fuori. Non partirei dall’idea di sicurezza, di difesa, di alzare i gomiti, perché è indice di paura e paradossalmente di grande insicurezza. Forse ispirandoci a persone come Bonhoeffer e Buonaiuti, come ci ha mostrato don Rosario, che non partivano dalla ricerca di sicurezza ma dalla consapevolezza delle proprie insicurezze: una consapevolezza che spinge alla ricerca di strade che magari non sono sempre quelle giuste, ma che hanno in sé la possibilità di farsi correggere.
L’idea di partire a tentoni, con lo sguardo fisso sui propri passi, in ascolto e pronto a rivedersi, a mettersi in questione… sì sarebbe un modo umano di partire, e con un coraggio che si alimenta giorno per giorno dalla fiducia dei passi compiuti e dalle voci di coloro che ci accompagnano.
È possibile quindi che se un giorno ci chiederanno: «Voi dov’eravate, quando tutto questo accadeva?», potremo raccontare che eravamo in viaggio, come viandanti, in ricerca di strade, verso il meglio?
Più che il merito, l’umanità
Altre due domande mi sono sorte dall’ascolto degli interventi: per partire in questo presente, di quali mezzi abbiamo bisogno? E quali strategie possiamo pensare, tenendo conto della ricchezza del nostro patrimonio culturale?
Partiamo da una riflessione: la capacità di ripensare sistemi che sono alla base del funzionamento delle grandi democrazie, come la meritocrazia. Chi è il meritevole? Chi merita e chi no? Agli occhi dei ragazzi, a scuola, su un numero si soppesa il merito, e sembra che quel numero misuri non solo le loro capacità di ragionamento o di calcolo, ma molto altro: forse, per non pochi di loro, il valore stesso della persona. Ci sono due immagini che mi vengono in mente e che danno la possibilità di pensare che esistono possibilità alternative: Jean Valjean e Gesù insieme ai pubblicani e alle prostitute.
Nel primo caso, il protagonista del celebre romanzo di Victor Hugo, I Miserabili, era un numero agli occhi della società, un numero di carcerato che non meritava niente. Dove avviene la svolta di un uomo, che accoglie la possibilità del suo riscatto? Quando non si soppesa il merito ma l’umanità, e questa non ha misura. Così, grazie ai gesti di umanità del vescovo Monseigneur Myriel, è permesso a Jean Valjean di credere che esiste una umanità anche per lui, al di fuori di comportamenti meritevoli o non meritevoli.
L’altro è il racconto parabolico di Gesù, in Mt 21, 28-32, dei due figli di un vignaiolo, che si conclude così: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio». Non ci sono condizioni di merito, per cui le prostitute e i pubblicani possono passare avanti; non c’è un criterio specifico, un pass speciale; questo è solo il modo con cui Dio guarda l’umanità, e chi secondo i criteri umani è immeritevole o fallito, come lo è stato suo Figlio, per Lui, invece, è destinatario della sua Gloria.
Più che il pubblico/privato, il “comune”
Se questo è l’orizzonte all’interno del quale possiamo ripensare i quadri di una educazione civile, come è possibile concretamente fare? Stella Morra ci ha invitati a pensare al “comune” come uscita dalla claustrofobica tensione tra “pubblico” e “privato”. E se ripenso alla mia esperienza di donna che ha compiuto studi teologici, è vero che questo ha segnato il mio percorso di formazione. Insieme a tante altre donne che sono entrate nelle facoltà teologiche abbiano trasformato quei luoghi da privati/riservati alla sola formazione del clero e dei religiosi a una dimensione comune per altri, diversi e differenti.
Forse, in generale, è più facile per le donne pensare alla dimensione del comune, alla presa in cura di vite che sono “comuni”, al sentirsi responsabili nei confronti di ciò che non ci appartiene mai totalmente. Non è così che abbiamo cominciato anche a immaginare il nuovo volto di una Chiesa che esce dalle sue apparenti certezze e si fa carico delle inquietudini e delle speranze del mondo? Se quindi la Chiesa si occupa di custodire il comune, tramite domande di cui non sa ancora la risposta, tramite una narrazione inclusiva e plurale, con parole che danno indicazioni e contrastano menzogne e estremismi, essa assume la forma di “ospedale da campo” in cui si possono ricercare pratiche di parole condivise.
“Noi, giovani donne e uomini dove siamo?” Come giovane teologa, insieme a tanti della mia generazione, sento più che mai che siamo chiamati, di fronte agli eventi presenti, a rispondere, per sgretolare sistemi meritocratici e trasformarci in custodi attenti e iniziatori di pratiche che lavorino per il “comune”. Come? Inventando parole che diano inizio a processi, dando spazio a eventi di incisiva gentilezza, perché tutti, nessuno escluso, possano vivere luoghi e tempi umani, sempre più umani.