Questo è il mio corpo
A pochi giorni dalla Via crucis al Colosseo con le meditazioni di suor Bonetti, presidente di “Slaves no more – Mai più schiave”, un interrogativo: che cosa accade se sulla croce mettiamo, al posto del corpo dell’uomo Gesù, un corpo femminile?
Il libro di Elisabeth Schűssler Fiorenza In memoria di lei (1983, trad. it 1990) è diventato una pietra miliare dell’ermeneutica femminista del Nuovo Testamento. All’inizio, però, non ebbe (e forse non ha mai avuto) una ricezione unanime. Anzi, si pensava che il titolo In memoria di lei, preso da Mc 14,9 e riferito alla donna che unse Gesù, fosse un po’ troppo simile alle parole pronunciate da Gesù in occasione dell’Ultima cena: «Fate questo in memoria di me». Precisamente si temeva l’accostamento tra le due frasi e il pericoloso avvicinarsi del corpo femminile al corpo di Cristo dato per voi, da una parte, e del profumo versato dalla donna al sangue di Cristo sparso per molti, dall’altra. Un simile accostamento a livello simbolico avrebbe portato (si pensava) a un disastro teologico prima ed ecclesiologico poi. Come aveva commentato all’epoca la stessa autrice, l’episodio della donna che unse Gesù «era una storia politicamente troppo pericolosa».
Donne crocifisse
Ora sono passati più di trent’anni e l’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII non ha esitato a fare proprio questo accostamento, adottando le parole di Gesù Questo è il mio corpo per la sua campagna a favore della liberazione delle donne vittime di tratta e di sfruttamento. Commentando questa notizia e la decisione del papa di affidare quest’anno a Eugenia Bonetti (suora impegnata per le donne vittime della tratta) le meditazioni della Via crucis al Colosseo, Tonio Dell’Olio compie il passo successivo intitolando il suo pezzo su Mosaico dei giorni del 9 aprile “Donne crocifisse”. In questo modo, afferma Dell’Olio, il papa indica a tutti di «guardare alle croci dei nostri tempi da cui pendono le donne col loro carico di dolore e di sofferenza».
È una frase estremamente forte. Già la teologia della liberazione ci aveva abituato all’idea di popoli crocifissi compiendo una doppia identificazione: di Gesù con i popoli sofferenti e oppressi e dei popoli oppressi con le sofferenze di Gesù. Qui, invece, mi sembra che si faccia qualcosa di inedito: identificare i corpi delle donne martoriate dalla violenza maschile col corpo martoriato di Gesù e le sofferenze di Gesù con quelle delle donne vittime della tratta e della violenza. D’altronde, se come afferma Mary Daly, (Al di là di Dio Padre) «la violenza contro le donne è la fonte e il paradigma di tutte le altre manifestazioni», tale identificazione sembra più che mai necessaria.
Non è necessario frequentare le Chiese cattoliche per incontrare il crocifisso esposto allo sguardo di tutti e di tutte coloro che frequentano luoghi pubblici, aule scolastiche, tribunali, ospedali, caserme, e via dicendo. È evidente a tutti che quel corpo è un corpo da uomo, un corpo maschile (le Chiese riformate hanno saggiamente scansato, o forse anche superato, il problema limitandosi ad esporre la croce ma non il crocifisso in quanto Cristo avendo, come vuole la Lettera agli Ebrei, sofferta una volta per tutte, è risorto e siede alla destra di Dio).
Che cosa accade, allora, quando mettiamo al posto del corpo dell’uomo Gesù un corpo femminile?
La Christa: vittimizzazione o riscatto?
È esattamente ciò che ha fatto Edwina Sandys nella sua scultura Christa creata nel 1975, per dare un volto femminile alla sofferenza di donne e (lei precisa in un’intervista) anche di uomini. La Bosnian Christa, invece, elaborata negli anni Ottanta da Margaret Argyle, colloca la donna crocifissa al centro di una vulva colore rosso sangue accostando lo stupro delle donne bosniache alla violenza subita da Cristo sulla croce.
Infatti, si può benissimo argomentare che nella storia della Passione Gesù si trova a occupare il ruolo attribuito alle donne da un mondo (il nostro) imperniato sul dominio maschile. In questo modo egli opera una critica al dominio e alla violenza mostrando a quel mondo una via migliore. Facendo, invece, occupare quel ruolo a corpi femminili (le donne crocifisse) come coraggiosamente suggerisce Dell’Olio, che effetto fa?
Conferma le donne nel ruolo di vittima attribuitoci perennemente da chiese e società? Fa sì che come donne rimaniamo inchiodate per sempre alla croce anche quando essa viene travestita da servizio e da oblazione?
Oppure, ed è questo il pensiero che comincia a farsi strada, conferisce dignità alle donne vittime della violenza e dell’ingordigia maschile, facendoci partecipare pienamente al fine ultimo della croce, il riscatto, l’innalzamento, l’esaltazione del corpo delle donne? La donna crocifissa può essere segno di resistenza ad ogni forma di violenza e sopruso come fu il corpo crocifisso di Gesù? E ancora, se il corpo di Cristo (a differenza di Gesù di Nazaret sulla cui maschilità non abbiamo nulla da obiettare) è composto di donne e di uomini, allora perché la figura della Christa non dovrebbe aver valenza simbolica, teologica, ecclesiologica?
Quando la croce è complice della violenza
Come la reazione dei teologi a In memoria di lei di Fiorenza non era affatto unanime, così è variegata l’opinione delle teologhe circa l’efficacia e l’appropriatezza di declinare al femminile il Cristo crocifisso. Tuttavia, se vogliamo davvero liberare le donne dalla tratta e dalla violenza (dentro e fuori delle famiglie), bisogna aver il coraggio di interrogare fino in fondo i simboli cristiani e la teologia che ne scaturisce.
La croce è uno di quei simboli perché intorno ad essa è nato un groviglio di idee – su peccato e redenzione, sofferenza e castigo – che, a causa delle «relazioni storicamente ineguali tra gli uomini e le donne» (Documento di Pechino n. 119), diventa complice della violenza sulle donne. Dire, delle donne vittime della tratta e della violenza maschile, questo è il mio corpo potrebbe rivelarsi un passo nella direzione giusta, in memoria di lei.