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Il Regno delle Donne

Quello che i giornali non dicono - 25 Novembre / 2

Nel mondo dell'informazione l'attenzione riservata a stupri e violenze sulle donne è condizionata da elementi di "narrazione" che condizionano anche le modalità in cui questi stupri vengono raccontati: le cosiddette cornici interpretative. 

Dall’agosto scorso fino ai giorni scorsi, una serie di stupri e di violenze sulle donne ha tenuto alta l’attenzione del mondo dell’informazione, tanto da dare l’impressione che ci si trovi di fronte a una nuova emergenza. In realtà i dati dicono che non è vero ‒ purtroppo, verrebbe da dire ‒ perché quella degli stupri è una realtà quotidiana e consolidata: secondo i dati del Viminale da gennaio a luglio 2017 ci sono state 2.333 denunce, un po’ meno delle 2.345 dell’analogo periodo del 2016, ma comunque tante.

La grandissima attenzione mediatica è legata non al dato quantitativo, quanto ad altri elementi che rendono più o meno interessante – in base ai criteri di notiziabilità – un caso piuttosto che un altro. Elementi che poi condizionano anche le modalità in cui questi stupri vengono raccontati: le cosiddette cornici interpretative.

Con una prima evidente, differenza: quando l’autore dello stupro è uno straniero, l’appartenenza etnica è ampiamente sottolineata e – a volte esplicitamente, spesso implicitamente – indicata come causa. Se invece l’autore è italiano, allora scatta l’approfondimento sulla sua storia. In altre parole, lo straniero è colpevole in quanto appartenente ad un gruppo (marocchino, romeno, bengalese che sia), l’italiano è un individuo, che è arrivato a compiere un delitto a causa di una serie di fattori (perdita del lavoro, malattia, depressione), che lo hanno portato a compiere un atto inconsulto e, soprattutto, occasionale.

Discriminazione a parte, è giusto che i giornalisti cerchino le cause di ciò che succede, anche nelle storie personali, ma tutto ciò si risolve in una deresponsabilizzazione del maschio che ha compiuto violenza: in un certo senso, si finisce col giustificarlo e questo fa da specchio all’altro meccanismo che ancora è purtroppo ben presente nell’opinione pubblica, che è quello di colpevolizzare le vittime.

L’altro problema dell’informazione è che tende a dare molto spazio alle violenze che vengono compiute da sconosciuti, e molto meno a quelle che vengono compiute all’interno della famiglia o da ex partner (è la cosiddetta IPV, Intimate partner violence), anche se sono queste ultime a prevalere nettamente. Nel 2013 i Tg prime time della Rai e di Mediaset hanno dedicato alle donne uccise da sconosciuti il quadruplo dei servizi dedicati ai casi di IPV, benché le statistiche dicano che questi ultimi sono 12 volte più numerosi.

Vale anche per i femminicidi: nel 2006 i Tg di prima serata Rai e Mediaset dedicavano alle donne uccise da persona sconosciuta il quadruplo dei servizi dedicati agli assassinii commessi da compagni ed ex compagni, anche se questi ultimi erano il doppio.

Quello che in entrambi i casi manca, come ricordano Elisa Giomi e Sveva Maraggia nel saggio Relazioni brutali. Genere e violenza nella cultura mediale (il Mulino 2017), è il racconto dello stupro o del femminicidio dentro una cornice “tematica”, cioè riportando questi delitti all’interno della violenza di genere, che è un mezzo che i maschi usano per difendere la propria identità, riconfermando il dominio sull’altro sesso. Dunque, raccontandoli non come episodi occasionali e di dimensione strettamente individuale, o peggio privata, ma come espressione di un problema culturale e sociale, purtroppo diffuso.

Per fare questo salto di qualità, cioè per cambiare cornice interpretativa, l’informazione dovrebbe liberarsi anche di un altro frame ancora troppo utilizzato: quello dell’amore romantico, che mette in scena l’amore come passione totale e irresistibile, all’interno del quale le donne sacrificano se stesse all’altro e al rapporto di coppia, e gli uomini sono così appassionati da poter perdere il controllo e “cadere” nella violenza, se la paura di perdere l’oggetto di tanta passione si fa strada.

Gli uomini e le donne di oggi hanno bisogno di narrazioni diverse da questa, all’interno di cornici interpretative più articolate e complete. Hanno bisogno di capire perché le cifre delle violenze sulle donne restano così alte e come se ne può uscire. Hanno bisogno di sapere che non si tratta di episodi occasionali, né di questioni private, ma di temi e problemi comuni, di cui vanno affrontate le cause. E il ruolo dell’informazione in questo è essenziale.

Va in questa direzione il Manifesto di Venezia (il titolo per esteso è “Manifesto delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parità di genere nell’informazione contro ogni forma di violenza e discriminazione attraverso parole e immagini”), che viene presentato nel capoluogo veneto il 25 novembre: promosso dalla Commissione pari opportunità della Federazione nazionale stampa italiana (FNSI), dall’ Unione sindacale giornalisti Rai (USIGRAI), dal coordinamento di Giornaliste unite libere autonome (GIULIA) e dal Sindacato giornalisti veneto, vede anche l’adesione dell’ Associazione di giornalisti e comunicatori cattolici (UCSI).

 

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