Quelle 25.000 dimissioni per maternità
Per moltissime donne, nel nostro paese, avere una famiglia significa molto spesso non poter lavorare o dover lavorare “a metà”, perché - sebbene i figli si facciano in due – sulle donne ricade la maggior parte dell’impegno di cura dei bambini. Norme giuridiche adeguate potrebbero agevolare l'uscita da questa “norma sociale", che ostacola le pari opportunità ed è una delle cause della diminuzione costante del tasso di natalità. E ne trarrebbero vantaggio anche i papà.
Qualsiasi donna italiana che provi a lavorare veramente sa che il lavoro non è stato pensato per le donne; e se poi sei una donna giovane, laureata, con due bambini o più, e vorresti lavorare veramente e non accontentarti di lavoretti per arrotondare lo stipendio famigliare, il lavoro diventa veramente una terra straniera, dove si viene ospitati per qualche ora, ma dove ci si sente raramente e per molto tempo veramente a casa.
Il gender gap Report per il 2017, che misura la distanza, in termini di opportunità, tra uomini e donne, vede l’Italia all’82° posto su 144 paesi, sulla base di un indice basato su quattro domini: opportunità economiche e politiche, salute e istruzione. E per l’Italia quelli che pesano di più sono legati alle opportunità economiche e alla partecipazione politica delle donne. Se poi scaviamo ancora di più, per la differenza retributiva a parità di lavoro svolto, la classifica ci vede al 127° posto su 144 paesi. Sul totale delle lavoratrici italiane il 40,3% lavorano part-time (solo il 16,2% degli uomini rispetto al totale dei lavoratori). E il part-time non è una scelta libera: è una necessità. È dunque difficile in Italia oggi tenere assieme lavoro e famiglia, lavoro e figli, ma lo è molto di più per le donne, che in Italia detengono ancora il triste primato in Europa, del maggior numero di ore in più di lavoro di cura in famiglia rispetto agli uomini.
Non ci stupiscono allora i dati dell’ispettorato del lavoro, che nel 2016 riportano 25.000 dimissioni volontarie di donne con figli fino a 3 anni, dimissioni motivate dalla difficoltà di conciliare lavoro e famiglia (legati per esempio a costi elevati o assenza di nidi). Gli uomini che si sono licenziati per difficoltà dello stesso genere sono solo 2.000.
Certamente, tra queste 25.000 donne che hanno rinunciato al lavoro per la famiglia, ci sarà una percentuale che lo ha fatto per una scelta libera, per un desiderio genuino di vivere la maternità in un certo modo. Ma la maggior parte ha scelto pesando i costi e i benefici, anche economici delle alternative. E tra chi lo ha fatto liberamente, sicuramente molte pensano che sarà un periodo, e che tra qualche anno si potrà riprendere il lavoro. Purtroppo i dati dimostrano che non è così: è molto difficile, quando si lascia il lavoro per un periodo prolungato, rientrare nei circuiti. Questi dati pesano molto sulla decisione delle donne di avere uno o più figli, generando il triste fenomeno, tutto italiano, della diminuzione costante del tasso di natalità. Ogni anno, quando vengono pubblicati i dati Istat sul numero delle nascite, scopriamo che sono sempre meno. Se ne parla sui social media, sui giornali, in Tv. La notizia dura un paio di giorni, poco o nulla si muove, rimaniamo inermi in attesa dell’aggiornamento del prossimo anno.
Il fatto che, nonostante i figli si facciano in due, il peso della cura di un bambino ricada pesantemente sulla donna è in Italia una norma sociale, cioè una consuetudine, una regola, che disciplina la vita sociale. Una norma sociale si basa su aspettative empiriche: la gente sia aspetta che ci si comporti in un determinato modo, e su aspettative normative: la gente ritiene che sia giusto che ci si comporti in tal modo. Per questo, essendo le norme sociali molto radicate nella società, è difficile cambiarle, ma non impossibile. Viene richiesto un processo culturale, che passa attraverso l’educazione, ma anche attraverso il rendere più facile ed economica la condivisione della cura dei figli. Siano benvenute dunque le norme (giuridiche e non sociali) sul congedo parentale per i papà, ma forse potrebbero essere migliorate: oggi i papà possono prendere due giorni di congedo gratuitamente (in Finlandia i giorni sono 54), altrimenti per farlo devono rinunciare al 70% dello stipendio. I dati dimostrano che i giovani papà desidererebbero poter stare di più con i figli ma non possono. Eppure basterebbe poco, basterebbe che chi scrive le regole si accorgesse che quello che sembra normale (la cura dei figli deve pesare solo sulle donne), in realtà tanto normale non è. Basterebbe che chi si occupa di normare questi ambiti avesse fatto esperienze di maternità e di paternità in situazioni di lavoro complicate. Basterebbe, cioè, che fossero persone normali.
Auspico che queste tematiche possano entrare seriamente in un dibattito politico, anche in tempi di campagna elettorale: sono argomenti concreti e urgenti, che toccano la vita di tante donne, di tante famiglie e sono dirimenti per il futuro dell’Italia. Di fronte alle fantasie e alla leggerezza dei temi di questa campagna elettorale, abbiamo bisogno di chi ci riporti al principio di realtà: la vita che nasce, la sua cura, la realizzazione professionale di tante donne, al pari degli uomini, sono una realtà da cui non possiamo e non vogliamo fuggire.
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