Queer: da insulto a risorsa per la vita di tutte e tutti
Il movimento teorico-politico queer denuncia e fluidifica le categorie rigidamente binarie che condannano tante vite alla precarietà e tanti corpi all’emarginazione e alla sofferenza. Un recente numero della rivista Concilium parla delle teologie che a partire da queste visioni ripensano il discorso e le pratiche della fede.

Queer è una parola inglese che significa “strano, obliquo, eccentrico”. Usata per denigrare le persone le cui sessualità o stili di viti non si conformano a una norma rigidamente eterosessuale, è stata poi adottata con orgoglio da una parte della stessa comunità LGBTQI. Queer designa dunque sia un certo attivismo politico che un pensiero filosofico, e da qualche anno a questa parte anche una ricca riflessione teologica soprattutto anglofona.
Nonostante esista in Italia una produzione autoctona di teoria queer, il pressoché unico esemplare di teologia queer finora apparso in italiano è il testo di Marcella Athaus Reid, Il Dio Queer (2014). In esso la teologa argentina, prematuramente scomparsa, costruisce sulla sua opera precedente Indecent Theology (Teologia indecente), senza la cui lettura Il Dio Queer sembra alquanto sconcertante. Sicuramente non un è opera introduttiva. A porre felice rimedio a questa lacuna ha pensato la rivista internazionale Concilium che nell’ultimo numero del 2019 fornisce una raccolta di saggi intitolata Teologie queer: diventare il corpo queer di Cristo.
Quale è dunque il vantaggio di questa raccolta? «Grande in ogni senso», avrebbe risposto l’apostolo Paolo. Innanzitutto, fornisce al pubblico italiano un’introduzione a un pensiero teologico estremamente fecondo, aprendo panoramiche inaspettate anche all’interno della teologia cattolica. Inoltre, sfata l’idea che il pensiero queer sia un lusso che solo un’alienata élite eurocentrica può permettersi. Anzi, gli scritti provenienti dal Messico (Angel Méndez-Montoya e Marilù Rojas Salazar), dalla Malaysia (Sharon A. Bong) e dal Sud Africa (Nontando Hadebe, Gerald O. West, Charlene van der Walt) combinano in modo estremamente creativo il pensiero queer con una prospettiva post-coloniale. Ancora una volta le periferie del mondo si rivelano luoghi di pensiero che mettono in rilievo la stanchezza – per citare Yeats – di «un centro che non riesce a reggere», ovvero la vecchia Europa e una parte della sua Chiesa.
Il patriarcato non opprime solo le donne
La domanda ora è: perché parlare di teologia queer su questo blog? Spesso e volentieri la teoria queer riconosce il suo debito alla teoria femminista. Anzi, verrebbe da dire che senza la seconda ondata del movimento delle donne e la riflessione che ha generato, un pensiero queer non sarebbe nato. Il riferimento primario in questo caso è ovviamente al pensiero di Judith Butler e alla sua teoria della performatività di genere, che ha fatto discutere le gerarchie cattoliche nel nostro paese. Infatti, per Butler e altre, il genere è una categoria non fissa e biologicamente determinata, bensì costruita linguisticamente e socialmente. «Il fatto che “il genere non (sia) un sostantivo […] ma sempre un fare” rende visibile l’inesauribile lavoro di genere già incluso nella costruzione di tali categorie come fisse e stabili», scrive Bong in questo numero di Concilium. «Ciò significa che una persona non nasce, ma diventa eterosessuale» (p. 97).
Il pensiero queer non solo smantella le costruzioni di sesso, di genere e di identità sessuale rivelando la loro intrinseca fluidità, ma prosegue con la decostruzione di ogni forma di binarismo. Perciò il pensiero queer è erede di de Beauvoir e di coloro che hanno sempre saputo che il patriarcato opprime tutte le donne ma anche una parte degli uomini, e che, per smantellarlo, bisogna decostruire l’economia binaria tout court. Torna utile a proposito ricordare un vecchio testo di Rosemary Radford Ruether, Per una teologia della liberazione della donna, del corpo, della natura, che già dagli anni Settanta ci avviava in questa direzione.
C’è il rischio di un nuovo “neutro”?
Se il pensiero queer mette in questione le categorie attraverso le quali percepiamo la realtà rendendole perennemente fluide, non è possibile che in questo flusso continuo la realtà dei corpi e dei corpi esclusi e maltrattati ci elude? E poiché la violenza strutturale del nostro mondo si abbatte maggiormente sui corpi femminili consegnandoli allo sfruttamento, alla miseria e alla morte (per mano maschile), non è possibile che il pensiero queer glissi sulle molteplici forme d’ingiustizia di cui le donne sono ancora oggetto?
La risposta è negativa, se consideriamo la natura intersezionale del pensiero femminista prima e queer poi. Per scongiurare il rischio che il pensiero queer introduca una nuova forma di neutro nel quale le differenze diventino del tutto indifferenti, si fa ricorso a una delle ultime opere di Butler, L’alleanza dei corpi. Così Méndez Montoya, frate domenicano, scrive: «Vite precarie non solo segnano i corpi di quelle persone lgbtqi che sono rifiutate e vittime di società e gruppi religiosi eteropatriarcali. I corpi queerizzati sono anche i corpi delle donne sottomesse, stuprate, assassinate. Sono quei corpi razzializzati da società che escludono le persone per il colore della loro pelle» (p. 117). Sono insomma i corpi delle persone migranti, disabili, impoverite e affamate. Il pensiero queer e la teologia che genera, quindi, si propongono di integrare le critiche al razzismo, al sessismo, al classismo, all’eterosessismo radicate nel Novecento e fatte proprie da una parte della riflessione teologica, soprattutto quella femminista.
Le teologie queer rappresentate in questo volume sviluppano ciò che de Beauvoir aveva intuito e che teologhe come Mary Daly e Rosemary Radford Ruether «avevano visto da lontano», ovvero che le varie istanze di esclusione e di oppressione non sono alternative, ma si implicano a vicenda. Così Sharon Bong, nel suo saggio «Ecclesiologia: diventare il corpo queer di Cristo in Asia» tesse insieme elementi di In memoria di lei di Elisabeth Schüssler Fiorenza con le intuizioni di Butler per approdare alle “ecofemministe queer”.
Un cristianesimo fuori dagli schemi
Se ci avventuriamo al di fuori dei nostri schemi binari donna/uomo, maschile/femminile e etero/omo sviluppando uno sguardo nuovo, scopriamo (è la proposta di questo volume) un cristianesimo queer, un Cristo trasformista, e delle Scritture che mettono in questione le nostre categorie di genere e tant’altro. Scoperta, come le varie teologie di liberazione ci hanno insegnato, radicata nella variegatissima “esperienza umana” di contesti diversi, come la comunità indigena dell’Istmo di Tehuantepec, la Free Community Church di Singapore o laboratori per persone lgbtqi e il clero in Sud Africa. Scoperta che non si limita al cristianesimo ma raggiunge frange dell’ebraismo e dell’islam. Approda poi a uno dei temi caldi del momento, al centro non solo del pensiero delle Chiese ma anche di molti settori del (trans)femminismo, ovvero la connessione tra gli esseri umani e le altre specie, l’umano, la macchina, la terra. Forse il pensiero queer, come suggerisce questa raccolta, indica una pista sulla quale come credenti possiamo danzare pensando e lavorare danzando!