Passaparola. Generazioni di teologhe a confronto
Una junior e una senior della teologia raccontano insieme una buona pratica iniziata durante il lockdown e proseguita anche quest’estate: conversazioni tra teologhe di diverse generazioni che mettono in comune le parole di cui sentono di non poter fare a meno. Un ascolto reciproco la cui forma leggera ma non ingenua si offre come risorsa critica, ecumenica e transgenerazionale anche per il mondo accademico.
Passaparola è il nome che, come Coordinamento delle teologhe, abbiamo dato a una prassi che in realtà curiamo da sempre: le conversazioni informali tra studiose di diverse età ed esperienze.
Con il primo lockdown, venuta meno la possibilità incrociarsi fra un convegno e una lezione, un incontro e un seminario, ci siamo ritrovate nel paradosso di dover mettere a calendario il tempo libero, e l’intuizione si è rivelata preziosa. Così abbiamo proseguito a fare dei nostri schermi, appena un po’ liberi dai lavori accademici, dei luoghi di scambio tra diverse generazioni, oltre che tra differenti discipline.
Un po’ esercizio e un po’ divertimento, un po’ cura delle relazioni e un po’ godimento, ci muoviamo attorno a “parole” che scorrono fra le une e le altre, si intersecano e magari rinascono. I tavoli virtuali, nelle diverse edizioni, sono cambiati e si sono anche allargati, senza cedere tuttavia all’ansia del “tutte on line, tutto in pubblico”. Spazi e tempi distesi, parole e racconti con sempre meno veli, delusioni cocenti e attese piene di energia, proprio come nelle serate fra amiche e amici.
Tante cose importanti e serie nascono con leggerezza, incrociando pensieri e magari bicchieri: se è così per azioni politiche e iniziative culturali, potrà esserlo anche per la ricerca teologica e la sua community. Per questo vogliamo condividerne qui alcuni elementi.
Docenti e discenti: colleghe
Non fingiamo ingenuità: sappiamo bene che l’alta percentuale di giovani teologhe nella nostra associazione è guardata con stupore e anche con una certa invidia. Tra l’altro non si tratta di “allevamento pulcini con chiocce”, perché le decadi di nascita si susseguono senza salti, creando un ambiente effettivamente intergenerazionale.
Vorremmo qui sostenere che questo non è casuale, perché è anche frutto di disciplina, è uno stile: chi ha alle spalle più anni di vita e di riflessione non si sottrae al compito di mettere a disposizione la propria esperienza, ma riconosce il valore delle esperienze delle più giovani, la forza euristica delle loro domande, la promessa insita nelle loro pratiche. Dà loro parola e le giovani la prendono.
Apprendiamo a riconoscerci l’un l’altra come colleghe. Si discute insieme, con rispetto ma senza sconti. Lo abbiamo già detto altrove: esercitare autorità è anche autorizzare, riconoscere le altre come autrici. Imparare reciprocamente è saggezza oltre che giustizia.
Sappiamo tra l’altro che il percorso ufficiale di studio della teologia dura molti anni. Anche chi sta ancora finendo gli studi, tra l’altro con tanta fatica per la mancanza di finanziamenti, ha già un grande bagaglio di pensiero. Nello stesso tempo può accadere che anni di studi e quintali di carta ignorino ancora la domanda di genere. Per questo parlarne insieme è importante.
Tra informale e formale
Ragionare “a perdere” è una pratica fondamentale che in verità non va persa mai. Le conversazioni informali sono quelle che consentono ai pensieri di girare, di essere consegnati in forme provvisorie e ritrovati poco dopo in altre forme. Non è un’alternativa al sapere formale, ma il suo luogo di incubazione: ritagliarsi spazi non istituzionalizzati è un modo per lavorare meglio anche in ambiente accademico. Lì non sempre ci si può concedere un tempo, è l’efficienza che guida i ragionamenti al dunque nelle riunioni decisionali, nella scrittura di articoli, nella stesura di progetti universitari. È giusto così.
Ma ai pensieri va data aria, va riservato uno spazio altro, non soffocato… e condiviso, soprattutto. Un tempo di masticazione in cui, rigorosamente insieme, si affinano le parole, si allarga la bibliografia, si notano prospettive nuove. È un metodo vincente. Chi si affaccia ai primi anni di studio teologico se ne accorge non appena ha la possibilità di sperimentarlo, e così cresce la responsabilità delle teologhe più esperte nel dare modo anche alle giovani di far tesoro di questo stile comune.
L’accademia in cui ognuno fa per sé, in cui la competizione è il motore e la produzione l’obiettivo, ha retto male al mondo di ieri e diventerà irrilevante nel mondo di domani. Per questo, l’informalità non è lo scioglimento dell’accademia, ma parte della sua salvezza.
Non il gruppo ma la rete
La cura dell’informalità fa il paio con il desiderio di farci reciprocamente e continuamente contaminare da diversi contenuti e stili, esperienze e discipline, senza omologarci. È importante imparare a sottrarsi alla tentazione delle sintesi che squalificano l’una o l’altra voce pagando l’ordine e la nitidezza di pensiero con l’esclusione di persone. Un gruppo chiuso procede così, tracciando linee di demarcazione. Ma la rete si ingrandisce nodo a nodo, allargando incessantemente la partecipazione invece che l’appartenenza, perché chi prende parola possa sempre farlo nella libertà.
Così conversiamo tra socie, amiche, simpatizzanti, passanti, donne e anche uomini, stavolta inclusi in un femminile sovraesteso: non c’è muro a dividere “noi” e “loro”, ma confini penetrabili che generano ogni volta un “noi qui” provvisorio, dove le presenze contano quanto le assenze, le parole come i silenzi. Anche i contesti accademici possono essere, fin da ora, luoghi recettivi, senza temere la contaminazione delle discipline e l’esplosione delle domande.
Finito un Passaparola… se ne vorrebbe subito un altro
Nel Passaparola di una decina di giorni fa – non il primo, non l’ultimo – alcuni temi sono stati ricorrenti: quale l’apporto della differenza e delle differenze; quali le sfide che ci attendono, mentre siamo noi stesse/i ecosistema in crisi e mondo senza pace; come abitare lo spazio comune: le parole consumate e quelle nuove (trans-, inter-, pluri-); le Chiese in trasformazione. Per sviscerare le valenze di una parola come “conflitto”, poi, ci sarebbe voluto tanto più tempo: si è rivelato un termine ombrello nel quale vibravano biografie e si differenziavano generazioni, si muovevano delusioni e speranze, si delineavano strategie diverse.
Ma forse proprio questo è il bello: finire e avere ancora voglia di continuare. Senza la noia che produce un libro erudito e senza la sazietà che dà il cibo mal cucinato. Desiderio feriale che riceve e condivide benedizione, che sa di pane e di spirito.