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Il Regno delle Donne

Paradossi e possibilità della “differenza cristiana”

2 Febbraio, Giornata della vita consacrata /2 – Dopo le note di Federica Cacciavillani sulla vita religiosa, proponiamo quelle di una consacrata dell’Ordo Virginum: una forma di vita antichissima ma abbandonata per secoli, reintrodotta dal Vaticano II ma non sempre correttamente compresa.

La vita cristiana e la vita consacrata presentano un discreto grado di paradossalità: niente di sorprendente per chi prova a seguire nella propria vita uno che è pienamente Uomo e pienamente Dio! Questa tensione, che ha attraversato i millenni, ha provocato non di rado nel vissuto ecclesiale sbandamenti o irrigidimenti.

Dalla vita cristiana alla sequela per pochi. E poi venne il Concilio

Nella storia della Chiesa che divenne egemonica dopo la svolta costantiniana del IV sec., quella che era la “differenza cristiana” secondo lo stile dell’A Diogneto, si trovò ad essere annacquata. La differenza non riguardava abito o linguaggio, ma lo stile delle relazioni vissute nelle città in cui i cristiani si trovavano. Dopo Costantino tutti diventarono cristiani di nome, ma chi lo era nei fatti? La contestazione della logica mondana ormai penetrata nella Chiesa, logica fatta di visione piramidale dei battezzati, di ricerca di potere, di successo, di privilegi, venne allora portata avanti prima dal monachesimo, poi dagli ordini mendicanti.

Ai margini della Chiesa dunque, nei deserti, negli eremi, nei monasteri, si custodiva la memoria delle esigenze della sequela, lasciando tutto e vivendo alla lettera i comandamenti del Signore: purtroppo l’effetto fu di attribuire all’eroicità di alcuni una scelta non possibile a tutti. Si cominciò a distinguere nella vita cristiana fra un impegno minimo e uno massimo, appannaggio di poche persone eccezionali. La contestazione della mondanizzazione della Chiesa finiva per legittimarla, come situazione inevitabile per chi viveva nel “secolo”, col rischio ulteriore, per chi invece faceva la scelta più radicale, di vivere il piacere di “essere considerati eccezioni”, che è “a sua volta mondanità” (S.Kierkegaard).

La considerazione della “vita religiosa” come eccezionale, superiore, più perfetta, è arrivata alle soglie del Vaticano II. Era tempo che si riportasse la contestazione della mondanità nel suo alveo corretto, come nelle prime comunità cristiane: si trattava di vivere la sequela di Gesù restando nel mondo, nella vita quotidiana delle relazioni sociali e della professione, visto che ogni cristiano è chiamato a vivere i cosiddetti “consigli evangelici”; l’unica specificità per le persone consacrate rispetto ad altri battezzati che vivono da coniugati o che si trovano in una solitudine spesso non scelta, restava quella del “celibato per il Regno” (Mt 19,12).

La verginità per il Regno, rimanendo nel mondo

Proprio i padri conciliari decisero, su indicazione di Paolo VI, di ripristinare una forma di vita consacrata femminile che, pur antichissima, da secoli non veniva più vissuta nella sua forma secolare, tanto era inaccettabile l’idea di donne che vivessero fuori dal matrimonio e fuori dal convento. Non si comprende l’Ordo Virginum senza il concilio Vaticano II, che rimette al centro la Chiesa come popolo di Dio immerso nel mondo; la figura dei vescovi; la parola di Dio da ascoltare e vivere nel quotidiano; la celebrazione di una liturgia vissuta con consapevolezza, culto spirituale di offerta di sé, radicata nell’eucaristia.

Le vergini consacrate, vivendo nella secolarità, condividono il celibato, o verginità per il Regno, con ogni forma di vita consacrata, come “segno” della Chiesa sposa che attende il Signore che viene. In tal senso il segno è anticipo della fine e del fine dei tempi, necessario per non smarrire la mèta, la tensione, la vigilanza, custodendo la memoria grata della promessa di Cristo che vale per tutti: «Ecco, vengo presto» (Ap 22,12).

La sottolineatura delle donne che provano ad assumere il paradosso riguarda il tentativo di vivere la differenza cristiana nella normalità; significa che non c’è un “di più” legato automaticamente allo stato di vita; che l’unica perfezione che tutti dobbiamo cercare è quella dell’amore. Si tratta di tenere insieme gli estremi: il punto di partenza, cioè la realtà concreta spesso contraddittoria della vita, e la mèta, cioè le esigenze del Vangelo, da testimoniare senza alcuna ostentazione, ma senza alcuna reticenza. Si tratta di andare al passo del debole, incoraggiate da chi è più avanti nel cammino, né sopra né sotto, ma in mezzo. Si tratta di attrezzarsi anche culturalmente per essere capaci di rendere ragione della propria speranza.

Equivoci e distorsioni

La debolezza di strutture nell’Ordo Virginum (l’unico riferimento gerarchico è al vescovo diocesano), offre grandi possibilità nel mettere in pratica con creatività il Vangelo, come in effetti spesso accade. Eppure può succedere che ci siano vescovi che pensano di avere in questo modo manodopera a basso costo, chiedendo lavori senza pagare i contributi; altri che impongono la vita comune; donne che vengono percepite come single in carriera o viceversa talmente introdotte in meccanismi curiali da perdere il contatto con la realtà quotidiana; vescovi che favorirebbero la formazione di più familiari strutture di potere, e altri che fanno così fatica a rapportarsi con donne “normali” da usare costantemente il registro dell’ironia o del paternalismo; donne che cercano di ottenere la consacrazione come un imprimatur su vite di fatto all’insegna dell’individualismo; altre che pensano alla formazione come programmi da seguire, magari copiati da altre diocesi, piuttosto che come percorsi da costruire nel rispetto delle situazioni personali.

Alle possibilità spalancate non sempre si è risposto con coerenza negli ultimi 50 anni. Penso che sia il paradosso della libertà evangelica, che chiede di esercitare al massimo grado il discernimento e la responsabilità, personali e comunitari: una sfida affascinante per ognuno.

 

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