Non ho mai ucciso una donna. Ma non mi sento innocente
«Not all men», «Non tutti gli uomini»: lo si dice anche in ambiti cattolici, di fronte ai femminicidi. E così ci si libera dall’impegno di riflettere sull’ordine gerarchico che sta alla base delle molteplici forme di sopruso maschile: anche quelle quotidiane, quelle di cui nemmeno ci si rende conto perché sono modi “normali” di porsi e relazionarsi. Ma se non si fanno i conti con quel modello, anche nella propria esperienza personale, se ne diventa complici.
Da giorni rimbalza tra social network e media tradizionali un corposo dibattito pubblico, scaturito dal rapimento e assassinio di Giulia Cecchettin e dalle forti parole della sorella Elena, che hanno richiamato gli uomini a una consapevole assunzione delle questioni di violenza di genere. Fa certo pensare che da parte della comunità dei cristiani cattolici – o almeno di quelli che entrano nell’agone sottolineando con decisione questa identità – di fatto il tenore degli argomenti si assesti tra un malcelato vittimismo maschile («non tutti gli uomini»), un esplicito rifiuto della stessa categoria sociologica di patriarcato, la derubricazione della violenza a disordine affettivo e/o un invito alla prudenza, in verità non troppo distante dal victim blaming.
Dietro il «non tutti gli uomini», una colpevole inconsapevolezza
Mi pare che questa postura in relazione ai legittimi appelli di ampia parte delle donne sia figlia – più che di una vera e propria messa a tema della questione della violenza di genere – del pregiudizio ideologico, ma forse ancor più di quella che mi sento di chiamare una “colpevole inconsapevolezza”. Non mi sentirei di escludere del tutto dalle cause di questa reazione difensiva quasi risentita pure l’iper-investimento fatto in ambito cattolico, anche da parte del magistero, sul tema di una differenza di genere interpretata a partire dalla categoria di “complementarità”. Una categoria – non poco problematica, a mio avviso – che porta quasi inevitabilmente a vedere ogni rivendicazione delle donne come la perturbazione divisiva e minacciosa di un supposto ordine precostituito ritenuto neutro e naturale (quando neutro e naturale, evidentemente, non è).
In quanto uomo, faccio francamente fatica a comprendere la gerarchia dei valori che sta dietro a quel «non tutti gli uomini». E ci mancherebbe che tutti gli uomini stuprassero oppure uccidessero la partner! Ma come si può considerare un criterio sensato, in ordine al modo di concepire la propria mascolinità, quello che si esplicita con le parole «io non ho mai ammazzato una donna»? Come può essere quella l’asticella, il minimo sufficiente, della maschilità? Non chiediamo come società un livello così basso a nessun altro ambito al mondo. Sarebbe come dire che è sufficiente per un medico non tanto curare bene i pazienti, quanto non avvelenarli. Che è sufficiente a un lavoratore non dare fuoco all’ufficio. A un padre o una madre non far morire di stenti i figli.
Viene da pensare che dietro a quel «non tutti gli uomini», per la gran parte, ci sia più inconsapevolezza che malizia. Certo ritengo si tratti, in ogni caso, di una inconsapevolezza che non si può pensare esente da colpa: questi temi non sono stati posti la settimana scorsa e sicuramente non sono entrati ieri nel dibattito pubblico. Una risposta tanto pre-tematica, come quella che sta dietro a «non tutti gli uomini», implica che non si sia fatto nemmeno lo sforzo di provare ad ascoltare e di provare a capire ciò a cui da tempo le donne richiamano, riguardo la violenza di genere.
Il “peccato originale” del maschio
Che sia proprio la colpevole inconsapevolezza del «non tutti gli uomini» una forma dello strutturarsi al maschile di un “peccato originale”, di cui, come uomini, siamo dapprima vittime, diventandone presto complici?
Siamo nati – noi uomini – assorbendo socialmente una modalità predefinita che ci colloca, in molte sue forme, in una posizione predatoria e oggettivante in relazione alle donne. Di più: dal primo istante in cui mettiamo piede in questo mondo, molto intorno a noi continua a instillarci la convinzione di essere nel pieno diritto di poter definire che cosa debba essere una donna in relazione a noi. È qualcosa che passa nei riti, nei simboli, nelle parole, nei significati, nelle strutture. Non è una cosa che abbiamo scelto, almeno in un primo momento. Ma ben presto la replichiamo, in modo automatico e inconsapevole (quando non addirittura consapevole).
Personalmente riesco a identificare con grande precisione nella mia storia i momenti in cui ho fatto del mansplaining, in cui ho trattato dall’alto in basso una donna come mai avrei fatto con un uomo, in cui ho preteso di definire una relazione, in cui ho approfittato della confidenza concessami, in cui ho violato un “no” pensando che sotto sotto potesse essere un “sì”, in cui ho ritenuto di essere perfettamente in diritto di avanzare delle avances non richieste, in cui ho pensato “è il ciclo” (come se poi io, invece, gli ormoni non li avessi). Tutti fenomeni che non hanno a che fare semplicemente con la altrettanto strutturale difficoltà a relazionarci con un altro essere umano, ma che hanno la loro evidente radice in una definizione di genere.
E sono perfettamente consapevole del fatto che ciò che riesco a riconoscere sia solo la punta di un iceberg di violenza che mi vede, in quanto uomo, alla sua origine. Violenza che, almeno in questi pochi sprazzi di consapevolezza, sono riuscito a riconoscere perché la donna che avevo di fronte ha avuto la sacrosanta sfacciataggine di comunicarmi che si è sentita violata.
Le donne lo sanno. Prendiamole sul serio
Per uscire dalla modalità predefinita, per smettere di essere complici colpevoli e inconsapevoli della violenza di genere, noi uomini abbiamo bisogno di fare questo: prendere sul serio quello che le donne hanno da dire sulla violenza che subiscono in quanto donne.
Abbiamo bisogno di farlo perché quella voce differente è ciò che ci destruttura, ciò che ci permette di riconoscere quei frammenti di patriarcato che ancora si agitano sotto la nostra pelle, ciò che ci rende consapevoli che, no, questo non è neutro. No, quest’altro non è naturale. No, questo non è normale. Né può pretendersi normante.
Abbiamo bisogno di raccogliere l'appello risuonato – per l'ennesima volta – in questi giorni. Di scegliere di diventarne responsabili.
L'alternativa è essere servi della modalità predefinita. Complici colpevoli di un peccato originale inconsapevole. Forse, tra tutte, la peggiore complicità è proprio pensare di non esserne contagiati.