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Il Regno delle Donne

Nessuna croce manca

È il cuore, nella poesia di Ungaretti, il paese più straziato: nella passione del mondo la festa di Maria di Magdala non è memoria intimistica, ma annuncio nella storia a interrompere i discorsi di odio che deformano le nostre coscienze e inquinano lo scenario culturale e politico.

Di queste case

non è rimasto

che qualche brandello di muro

 

Di tanti

che mi corrispondevano

non m'è rimasto

neppure tanto

 

Ma nel mio cuore

nessuna croce manca

 

È il mio cuore

il paese più straziato.

 

Quando le parole ordinarie sono consumate e deformate, la poesia affiora alla memoria. Ungaretti scrisse San Martino del Carso nel 1916, nel cuore di un conflitto che ha contrapposto ragazzi delle stesse montagne, che li ha violentati e uccisi, insanguinando le vie, oggi finalmente dedicate alla pace. Il mondo è oggi ancora insanguinato, in una strutturale inequità che crea conflitti devastanti e alimenta i mutamenti climatici: donne uomini bambini in fuga sono la punta dell'iceberg della passione del mondo.

L'annuncio dell'alba di Pasqua, la parola di Maria di Magdala e delle altre discepole e dei discepoli riguarda anche questa storia, anche questa passione: non è roba da sacrestie illanguidite, da ritualità inespressive, da balbettii pavidi, da connivenze interessate. Celebrarne la festa il 22 luglio, riconoscerla sorella e madre con il dono/compito dell'apostolato[1], non è pensare un contentino per le donne pie, ma ripetere la parola della vita per tutti nella passione della storia. Perché la parola è potente, dà forma o deforma. L'annuncio di Pasqua dà spazio alla vita e interrompe il linguaggio deformante dell'odio.

Un tempo per la santità: la disciplina delle parole

Il documento che prepara il prossimo Sinodo di vescovi ha molti aspetti interessanti e un'aria dinamica, con la sollecitazione a una riflessione sulla santità nella vita concreta dei giovani e di tutti. Mi limito a suggerire un'attenzione che si colloca proprio tra ascolto e discernimento: disciplina delle parole vuol dire conoscerne la potenza, saper decriptare gli interessi che le fanno pronunciare, poter disvelare le risorse ma anche i pericoli insiti nelle pratiche discorsive, dai comizi alle prediche, dai social alle parole che volano alle casse del supermercato.

I giovani (nel senso largo del termine, certo a tratti conteso fra paternalismo e ammiccamento) sono fra i primi che sanno sulla propria pelle la forza perversa del cyberbullismo, della corruzione della ludopatia, dell'istigazione alla anoressia: violenze inaudite, passione del mondo nel cuore del suo germoglio. Nello stesso senso, con la stessa capacità di sospetto e di indignazione, loro e gli adulti – che ne hanno maggiore responsabilità – devono sollevare i veli dell'apparente “evidenza” della propaganda xenofoba, smontarne i meccanismi discorsivi, che sono già azione politica e pratica dis/educativa.

In questo senso va l'appello che in molti, segno di più vasta comunità, abbiamo indirizzato ai vescovi italiani: la sfida educativa, le dinamiche culturali fanno parte di una mission molte volte segnalata. È un compito del quale le giovani generazioni, la storia stessa, ci chiederanno ragione: meglio adempierlo quando è il momento e non solo pentirsene poi.

Lo specchio deformante

Tornano infatti con preoccupante insistenza i metodi messi in atto all'inizio delle tragedie e dei genocidi dello scorso secolo. Edith Stein nel 1933 aveva scritto la prefazione al proprio libro Storia di una famiglia ebrea con parole tuttora eloquenti:

«“Negli ultimi mesi gli ebrei tedeschi sono stati strappati alla tranquilla ovvietà dell’esistenza e costretti a riflettere su se stessi, sulla loro natura e sul loro destino... se solo sapessi in che modo Hitler sia arrivato al suo spaventoso odio per gli ebrei”, disse una delle mie amiche ebree [...] Gli scritti programmatici e i discorsi dei nuovi detentori del potere hanno dato una risposta. Come uno specchio concavo, essi ci rimandano l’immagine di una spaventosa caricatura. Forse essa è stata disegnata con sincera convinzione. Forse i singoli tratti imitano modelli viventi. Ma, l’umanità ebraica è il prodotto necessario del “sangue ebraico” tout court? [...] molti hanno un amico ebreo [...] ma molti altri non hanno fatto queste esperienze. Tale opportunità è negata soprattutto ai giovani, che oggi vengono educati nell’odio razziale fin dalla primissima infanzia. Nei loro confronti, noi, che siamo cresciuti nell’ebraismo, abbiamo il dovere di rendere testimonianza (Breslavia 21/9/1933)»[2].

La pratica discorsiva deformante fa già parte del genocidio, rende proni e ottunde le coscienze, facendo leva sui peggiori sentimenti (già Terzani sosteneva che certi discorsi non vanno sottovalutati, perché svegliano i mostri del nostro profondo), trasformando uomini e donne, padri e madri, lavoratori e studenti in “popolo da guerra”, che poi non è così distante da “carne da macello”, perché il meccanismo che distorce l'immagine di persone che varcano il mare in cerca di sollievo, che criminalizza chi fa sostegno umanitario, che insulta chi ne parla, è pronto a rendere vittima anonima la povera gente che ora esalta e aizza.

Hate speech: interrompere l'odio

In Parole che provocano Judith Butler prende in esame lo hate speech, mostrando come i linguaggi razzisti e sessisti sono già in sé un’azione violenta. In questo modo mostra lo spessore corporeo e la valenza politica di quanto le filosofie del linguaggio già indicavano come performativo:

«L’atto linguistico è un atto corporeo e la “forza” del performativo non è mai completamente separabile da una forza corporea. È questo che ha costituito il chiasmo della “minaccia” come atto [...] che è allo stesso tempo corporeo e linguistico»[3].

La prima e fondamentale “azione” consiste nel prendere atto della cosa, svelandone il meccanismo e denunciando la distorsione che i linguaggi di odio danno ai fatti. Ma c'è di più: la parola franca può interrompere il meccanismo, può aprir altre vie, può rendere nuovamente di carne i cuori pietrificati. Come nell'alba di Pasqua la Parola può rovesciare come un guanto la violenza della croce trasformandola, può tenere memoria di tutte le piccole vite perdute, salvando noi dall'esserne gli aguzzini. In questo modo onoreremo la festa di Maria di Magdala: se nel cuore nessuna croce manca, vi scriveremo anche “una mano un nome” (yad vashem), tutti i nomi e i volti perduti in questa storia ma conservati nel cuore di Dio, finché sorga un giorno migliore.

 

[1]    Il nuovo prefazio afferma che Cristo le apparve e la onorò “apostolatus officio”, che è reso in italiano in un modo che ne smorza la forza, perché è stato tradotto: «a lei diede l’onore di essere apostola per gli stessi apostoli».

[2] E. STEIN, Prefazione in Ead, Storia di una famiglia ebrea, Città Nuova, Roma 1999, 23-24.

[3] J. BUTLER, Parole che provocano, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010, 204.

 

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