Lo sguardo dell’addolorata consolata
Una vecchia statua di Maria da restaurare, sempre usata il Venerdì santo ma con la corona di stelle. Un volto che il dolore ha sfigurato e che il mattino di Pasqua ha restituito vivo e cambiato. Consolato.
Mi capita di dovermi occupare della statua di una Madonna Addolorata. Alcuni amici mi hanno coinvolto nel restauro; vivono in un piccolo paese e tutti lì sono affezionati a questa Addolorata, un po’ scorticata, con lo stellario (ho imparato che la corona di stelle si chiama così) sbocconcellato e un improbabile abito che deve essere stato nero. Gli amici mi mandano le foto di questa ragazza di gesso, con un nuovo abito nero appena imbastito, con un viso enigmatico. Devo trovare il modo di risistemare le stelle.
Il restauratore, con il quale ho a lungo parlato di stelle e stellari, mi dice: «Dodici stelle per l’Addolorata? Probabilmente è una Consolata. All’inizio del secolo scorso quella statua è stata scambiata oppure usata come Madonna Addolorata. Vestita di nero, poi… è andata bene così». Mi dicono gli amici del paese della ragazza di gesso: «È sempre uscita il Venerdì Santo!». Consolata, poi, di che cosa? Il saggio restauratore esperto di devozioni e oggetti sacri mi dice con tono imperativo: «Non provi a cambiare la devozione, eh!?».
Rimango lì, senza paese e senza ragazza di gesso, con i due stellari vecchio e nuovo da rendere alla piccola chiesa, a guardare la faccia della Consolata, a riflettere su quella faccia senza lacrime sulla quale mi piace leggere un’ombra di durezza. Il dolore non lascia indenni, il figlio, l’amoroso giglio, è morto. Glielo hanno ridato in un altro modo. Non è lo stesso.
Cerco immagini della Consolata e in tutte, da quelle più famose, oggetto di nobile e accertato culto, come in quelle di una più ordinaria devozione, ritorna quel viso non devastato dal dolore, ma nemmeno felice e splendente. Mi torna davanti agli occhi l’Annunciata di Antonello da Messina.
È forse questa una buona metafora delle donne. Annunciate, addolorate, consolate. Figli avuti e dati in giro per il mondo, per la vita di tutti; domande, sempre domande; e risposte, risposte sempre strampalate e dissonanti. E poi, forse ad un certo punto per alcune almeno, una arcana consolazione, che nulla sposta e fa tacere l’urlo. Ma cambia la faccia. Ne compone una diversa.
Forse, oltre che metafora delle donne, l’Addolorata Consolata ci dice di Pasqua, di una vita che ci raggiunge nel tempo di primavera, del dolore del Venerdì Santo e dello stupore della mattina dopo il sabato. C’è sempre nella vita delle donne una mattina in cui cerchiamo un corpo che “non so dove l’hanno posto” (Gv 20, 13) e Qualcuno, finalmente, ci chiama per nome e tutto si compone e, in qualche modo, capiamo.
Ci vorrà Michelangelo perché il cadavere di un uomo adulto e perfetto non travolga con il suo peso la ragazza che lo tiene in grembo. Quel miracolo di equilibrio è chiamato Pietà. Così il viso della Consolata, faccia asciutta e occhio enigmatico: il figlio è vivo, ma, se mai lo è stato, non sarà più “suo” figlio. È vivo, però.
Pietà ha disteso il viso della Consolata: la Vita ha cancellato le lacrime dal suo volto, come farà con ognuno di noi, in un giorno ultimo, e ci lascia per ora vivi, consolati e anche frastornati. Maria diventerà Consolatrice e noi vogliamo, vorremmo sempre essere consolati e chiamati per nome.