La teologia incarnata delle donne
Nel discorso di Francesco per i 50 anni della Commissione teologica internazionale (CTI) si ritrovano alcune caratteristiche della pratica teologica delle donne: essa è un “corpo a corpo” con la Scrittura e con il discorso su Dio, senza riduzioni autobiografiche e senza derive ideologiche. Uno studio che non paga, ma appassiona. E che, come le altre teologie, può aiutare “il popolo” a non perdere la fede.
Dopo che al concilio Vaticano II era divenuta ormai evidente la necessità di un dialogo, anche pubblico, tra magistero e teologi, Paolo VI dotò la Chiesa di un importante gruppo di lavoro, la Commissione teologica internazionale (CTI). A cinquant’anni dalla sua costituzione, Joseph Ratzinger – che in quanto Prefetto della Congregazione per la dottrina delle fede l’aveva presieduta per tanti anni – ha rivolto ai membri della Commissione una lunga lettera nella quale ricorda alcune tappe importanti della sua storia.
Ne lascia però da parte una che per noi ha invece un certo rilievo, e cioè il fatto che dal settimo quinquennio (2004-2009) hanno cominciato a farne parte, sia pure in percentuale molto ridotta, anche alcune teologhe. A riprova che la presenza delle donne nell’ambito della teologia cattolica viene ormai riconosciuta come strutturale. C’è voluto un po’ di tempo, se si pensa che diverse di noi hanno cominciato a studiare teologia alla fine degli anni ’60 e la catena, fino ad oggi, non si è mai interrotta. Ma le donne sanno molto bene che, soprattutto a loro, nella Chiesa non vengono risparmiati lunghi tempi di “sala d’attesa”.
Far venire alla luce il Vangelo: un’indicazione che apre il cuore
Da parte sua, per la celebrazione dei suoi «cinquant’anni di servizio alla Chiesa», papa Francesco ha rivolto alla Commissione un discorso che merita attenzione perché supera i confini dell’occasionalità.
In fondo, è a tutti i teologi e le teologhe che il papa si rivolge quando ricorda che la teologia svolge, nei confronti del Vangelo, una funzione generatrice: «Siete chiamati a far venire alla luce il Vangelo».
Dopo secoli in cui lo statuto della teologia cattolica è stato monopolizzato dal problema del rapporto con il magistero, questo richiamo alla priorità del Vangelo e alla forza propulsiva che viene alla teologia proprio dal suo legame genetico con il Vangelo allarga il cuore.
Una teologia che nasce dalla vita ed è per la vita
Francesco, poi, pensa a una riflessione teologica che nasce dalla vita, è espressione del vivere e torna alla vita: «A questo è chiamata la teologia: non è disquisizione cattedratica sulla vita, ma incarnazione della fede nella vita».
Non sapremo mai se o fino a che punto egli stesso sia consapevole del fatto che proprio questo è uno dei più grandi contributi che le donne credenti hanno dato alla vita spirituale e alla vita ecclesiale, cioè a quelle che Francesco considera le due dimensioni costitutive di «una teologia bella, che abbia il respiro del Vangelo» e sia in grado di attirare «laici e clero, uomini e donne».
Per le donne, infatti, il rapporto con la Bibbia e con la teologia comporta di ingaggiare un vero “corpo a corpo”. Passa infatti attraverso l’affermazione della propria soggettualità individuale e di genere e, al contempo, per sfuggire all’autoreferenzialità, passa attraverso un’autentica disciplina delle relazioni. Comporta però anche una pressante ricerca dei nessi, molteplici e complessi, tra il vivere e il pensare e, al contempo, una sapiente presa di distanza da ogni tentazione totalitaria dell’io come dell’idea, della riduzione biografica come della deriva ideologica.
Né proselitismo né paternalismo
La pratica della teologia, d’altra parte, è grande scuola di libertà. Per questo forse nel caso delle donne, quando cioè non si studia unicamente per accedere agli ordini sacri, ma per desiderio, la riflessione teologica esercita un fascino tutto particolare. Diventa vera e propria passione. Una passione che, benché in Italia gli sbocchi professionali siano pressoché nulli, si va trasmettendo di generazione in generazione. Una passione strettamente personale e insieme espansiva perché, come dice efficacemente papa Francesco, si fa teologia «per diffondere il gusto buono del Vangelo ai fratelli e alle sorelle del proprio tempo». Non per proselitismo, ma neppure per paternalismo.
Il popolo di Dio rischia il disorientamento o piuttosto l’analfabetismo?
È proprio a questo riguardo, però, che il discorso di papa Francesco lascia trasparire un’inattesa criticità. Alla fine infatti, con sbrigativa determinazione, il pontefice afferma che il teologo deve, sì, saper «andare oltre» e «rischiare nella discussione», ma solo a porte chiuse, perché «al popolo di Dio bisogna dare il “pasto” solido della fede». Poi, fuor di metafora, chiede ai teologi che «la dimensione di relativismo … rimanga tra i teologi, ma mai portare questo al popolo, perché allora il popolo perde l’orientamento e perde la fede».
Una simile affermazione meriterebbe una lunga e ampia discussione perché chiama in causa la secolare resistenza, da parte della Chiesa cattolica, a entrare nella modernità e a liberarsi dal fantasma del modernismo. Ma, soprattutto, chiede di domandarsi se, oggi, il popolo non perda la fede proprio perché gli viene somministrata pappa devozionale e non il «cibo solido», che, per essere tale, deve essere impastato di buona divulgazione e condito da un serrato confronto di idee.
Ogni giorno verifichiamo che l’analfabetismo è la piaga che sta infettando la vita pubblica e la convivenza civile. Lungo i secoli, in analoghi momenti di crisi, la Chiesa è stata capace di “armare la resistenza”, perché ha fatto quello che auspicava Marguerite Yourcenar: «Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che, da molti indizi, mio malgrado, vedo venire».
Come tutti i ricercatori, anche i teologi sanno certamente distinguere tra il momento strettamente investigativo e quello apertamente divulgativo.
Ma in un tempo come il nostro, in cui in tutti gli ambiti del sapere e del vivere l’ignoranza è un attentato alla qualità della vita, se il popolo perde la fede è perché da troppo tempo è stato condannato, anche dalla Chiesa stessa, a una sorta di analfabetismo biblico e teologico. Ed è stato così reso inabile ad affrontare le domande che nascono, non per induzione dei teologi, ma a partire dalla vita e dalla storia.