La gentilezza dei barbari
Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani: nel bel Sussidio predisposto dalla CEI mancano due parole importanti del versetto che fa da filo conduttore. Proviamo a recuperarle, perché scavano nelle dinamiche delle relazioni fra diversi.
«Ci trattarono con gentilezza»: è questa la frase guida per celebrare la Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani (18-25 gennaio). Il Sussidio predisposto dalla Conferenza episcopale italiana ripercorre gli ultimi due capitoli degli Atti degli Apostoli. Un calcolo sbagliato nei tempi di navigazione – forse dovuto alla troppa sicurezza della propria esperienza e anche all’urgenza di far arrivare i carichi, persone e prigionieri compresi, a destinazione – sfocia, prima, in un drammatico naufragio e poi nell’incredibile quanto insperato arrivo su una riva sconosciuta e straniera che si rivela però porto sicuro. Il Sussidio è profondo, e propone un vero e proprio percorso di consapevolezza, di guarigione e conversione delle dinamiche relazionali nelle comunità cristiane, indicando nella «gentilezza» ricevuta il seme per gesti concreti di accoglienza per tutti i naufraghi odierni.
Una piccola nota, però. Alla citazione mancano parole. Due in particolare: «Barbari» e «rara», che sono il soggetto e la qualità della gentilezza. Ed è così che suona, letteralmente, la frase: «I barbari ci trattarono con rara gentilezza» (At 28,2).
Il libro degli Atti educa al continuo superamento di limiti, è una storia che per natura sua tende all’espansione dei confini del mondo. Riconoscere i barbari capaci di tanta gentilezza è allora l’ennesimo invito a fare i conti con una realtà sorprendente, se solo ci si prende la briga di sapersene accorgere.
Quando la discriminazione si fa sottile
Ma a volte la discriminazione assume forme molto insidiose e sottili, tanto più pericolose se inconsapevoli. Così anche lo stupore per un comportamento positivo può nascondere la conferma di un pregiudizio. Parole ormai di uso comune, estratte da un vocabolario consolidato, dette per abitudine e comodità, forse senza malizia e senza rendersi conto del loro carico discriminatorio e giudicante. Tuttavia il loro uso inconscio connota comunque una posizione, un punto di partenza nello sguardo sul reale. Definito solitamente dal linguaggio dei potenti.
Barbari. Sono barbari. Balbettano la lingua della civiltà. E se la parlano, esce strana dalle loro bocche e strana entra nelle orecchie dei greci. Il linguaggio come manifestazione dell’essere, il linguaggio che definisce un’identità. Sono i barbari a doversi far capire, sono gli «altri» a dover imparare la lingua di chi conta. E se il risultato non è perfetto, lo sforzo marca l’insopprimibile distanza. Perché se vuoi essere preso in considerazione davvero e alla pari, la differenza del tuo accento non si deve più percepire. Devi diventare uguale.
Non so davvero se sia stata una scelta deliberata non includere i soggetti di quell’accoglienza straordinaria nel versetto guida del Sussidio. Basta del resto, una sola occhiata alle traduzioni per accorgersi delle diverse sfumature restituite da una parola che in realtà è ben caratterizzata: «Gli indigeni», «gli abitanti del luogo» … E d’altro canto, puntare subito alla philanthrôpia è sicuramente un invito a vedere ciò che conta, per fissare e prendere a modello quei momenti altissimi in cui la solidarietà unisce e ci restituisce la nostra umanità. Senza più il bisogno ossessivo di distinguerci noi dagli altri.
Ma, almeno qui, credo sia importante non scordare da chi arriva quel comportamento tanto inusuale da esser riconosciuto fuori dal comune. Perché se si dicono gli altri barbari, spesso li si pensa barbari e ci si stupisce nello scoprirli capaci di virtù civili. Non è saggio allora superare quella parola, non senza prima averla attraversata, sentendone il peso addosso.
La rabbia degli esclusi
In ebraico, «parola» e «cosa» son dette nello stesso modo, davar rivela la verità e la sapienza di questo legame, l’alleanza stretta di voce ed effetto, tra dire ed essere. Le parole sono le cose, hanno un peso. Come nuclei di gravità attraggono, spostano equilibri, modellano e modificano il tessuto del reale e la sua percezione. Dire e non dire o dire in un modo piuttosto che in altro non è indifferente, lo sappiamo bene. Le parole sono pietra o pane, dipende.
Bisogna essere barbari e in condizioni di alterità per sapere che non è cosa semplice trasformare la durezza ricevuta in dono d’apertura. L’esclusione, l’essere parte debole non è garanzia di sensibilità del cuore. Una fin troppo facile retorica fa dei poveri di ogni genere dei maestri d’umanità, a prescindere. Ma non è vero che la privazione sia per sé stessa garanzia di delicatezza verso il bisogno altrui. Perché spesso – e come non capirlo? – il rifiuto e il giudizio generano chiusura, solitudine e rivalsa. Sentimenti e rivendicazioni che troppo spesso vengono derubricate con sufficienza, come manifestazioni inappropriate. Ma l’invisibile, se s’accorge d’essere, esige la giustizia del suo posto rubato nel mondo. E chi detiene il potere, anche quello del linguaggio, raramente glielo concederà senza ritorsioni.
«È deplorevole, ma è una realtà storica: è raro che i gruppi privilegiati rinuncino volontariamente ai loro privilegi (…). Sappiamo per dolorosa esperienza che l'oppressore non concede mai la libertà per decisione spontanea» (M. L. King, Lettera dal carcere di Birmingham, 16 aprile 1963).
Rispondere bene al male
La via evangelica è esigente: rispondere bene al male. Un tasso di cambio di altro livello che agisce nell’essere delle cose. E occorre qualcuno che si assuma la responsabilità, il peso delle parole e delle cose subite.
Su altre rive, in realtà non distanti dall’approdo di Paolo, simili parole solidali furono pronunciate per un gruppo di stranieri naufragati: Non ignara mali miseris succurrere disco, «non ignara di mali, imparo a soccorrere i miseri» (Virgilio, Eneide, I, 630). Il coraggio di connettere l’esperienza personale della sofferenza con la compassione per il dolore altrui. Didone usa il verbo del discepolato e lo usa al presente, perché di imparare non si smette mai. Nemmeno di imparare a parlare. Diciamolo che sono stati i barbari a trattare con gentilezza. Le parole costruiscono quel che osiamo immaginare.