In memoria di Adriana Zarri, a dieci anni dalla morte. «E dirà che ho vissuto, che attendo»
Adriana Zarri ha popolato il mio immaginario d’adolescente. Mio padre andava su tutte le furie quando la leggeva su Orizzonti. Né era il solo. Era franca, esplicita, spietata in quegli anni di mezzo che traghettavano la Chiesa oltre il Concilio. In cuor mio l’ammiravo. Ma la persona che ebbi occasione d’incontrare nel 1968 ad Assisi non era la Giovanna d’Arco, spada in pugno, che mi ero immaginata. Era mite, sospesa tra il reale e l’irreale (come ne esprimevano il mondo interiore le sue «favole/parabole»!), equamente compartita tra l’amore per gli animali e per gli esseri umani, verso cui posava quasi sempre uno sguardo compassionato e compartecipe non privo però, d’improvviso, di bagliori furiosi.
A metà degli anni ’70 decise di lasciare Roma. Ritornava alle sue radici e faceva sua la scelta «eremitica». Da quel momento in poi il nostro è stato soprattutto un rapporto epistolare, tranne poche eccezioni quali il convegno del 1986 Donne: studio, ricerca, insegnamento della teologia. Invitarla significò riconoscerla teologa tra le teologhe. Propose un testo su «Donne e teologia trinitaria» che mantiene a tutt’oggi il suo interesse, non diversamente da quelli resi negli stessi anni ’80 nel contesto di convegni dell’Associazione teologica italiana (ATI), del cui consiglio di presidenza fece parte, prima donna a esservi accolta.
Era nata il 26 aprile 1919 a San Lazzaro di Savena, vicino a Bologna – mi raccontava della lapide apposta alla sua cascina in cui la si diceva «prima teologa italiana». Esclusa dalla teologia accademica per motivi anagrafici, aveva cercato di saziare altrimenti la sua domanda. Ne era nata una professionalità difficile, inedita. Erano gli anni ’50. Da giornalista e pubblicista avrebbe seguito il passaggio conciliare. Essere Chiesa, esserlo come donna, in parità di diritti e di doveri. La grande sfida passava attraverso l’acquisizione pacificata della corporeità. Adriana non ha cessato di confrontarsi con il tema antropologico del corpo rivendicando, contro una scelta ideologica depauperante e alienante, la santità intrinseca di un vivere in relazione non necessariamente o negativamente ascetico, ma capace d’accogliere la sfida valoriale del corpo in quanto tale, fenomenologia e scambio sessuale inclusi.
Il bel testo di Mariangela Maraviglia (Semplicemente una che vive. Vita e opere di Adriana Zarri, il Mulino, Bologna 2020) mi esime dal far l’elenco dei suoi scritti in cui il registro narrativo si intreccia con quello polemico e con lo slancio mistico. Né provo a elencare le riviste diversissime a cui ha collaborato. Voglio però richiamare come questa sua attività si sia intrecciata alle lotte civili di quegli anni, come abbia avuto tra i suoi amici non pochi protagonisti della cultura italiana. Donna del dialogo, non ha temuto d’incontrarsi e di compartire le battaglie dei non credenti, iscrivendo la fede nel dovere dell’ascolto, di tutti e comunque.
Si è spenta il 18 novembre 2010, nell’eremo di Crotte di Strambino.
So per certo che gli amici e le amiche dei suoi ultimi giorni hanno corrisposto a quanto chiedeva nello struggente epitaffio che testimonia la radicalità antiretorica della sua scelta di vita:
Non mi vestite di nero:
è triste e funebre.
Non mi vestite di bianco:
è superbo e retorico.
Vestitemi
a fiori gialli e rossi
e con ali di uccelli.
E tu, Signore, guarda le mie mani.
Forse c’è una corona.
Forse
ci hanno messo una croce.
Hanno sbagliato.
In mano ho foglie verdi
e sulla croce,
la tua resurrezione.
E, sulla tomba,
non mi mettete marmo freddo
con sopra le solite bugie
che consolano i vivi.
Lasciate solo la terra
che scriva, a primavera,
un’epigrafe d’erba.
E dirà
che ho vissuto,
che attendo.
E scriverà il mio nome e il tuo,
uniti come due bocche di papaveri.