"Il minimo che ti poteva capitare"
Da molti anni statistiche, documenti ufficiali e reportage, social network e associazionismo, incontri nelle scuole e ricerche sociologiche lo dicono e lo ripetono: nella stragrande maggioranza, le donne ‒ famose o no, vestite poco o tanto, ragazzine e adulte, lavoratrici, studentesse e casalinghe, italiane dalla nascita, migranti o rifugiate, intellettuali o con poca istruzione, quelle “perbene” e quelle “permale”, abitanti delle grandi città e dei piccoli centri, nei paesi in guerra e nei paesi in pace ‒ conoscono sulla propria pelle cosa significa “cultura dello stupro”.
Il “caso Weinstein”, scoppiato un mese fa in seguito a un’inchiesta del New York Times sul famoso e potentissimo produttore cinematografico statunitense, per certi versi non ha quindi aggiunto nulla; ha però avuto il merito di riportare all’ordine del giorno alcune cose – come il legame tra sessualità e potere - che molti dimenticano spesso e volentieri, sebbene siano vecchie come il mondo, oltre che assolutamente cruciali.
Il moltiplicarsi delle denunce, le migliaia di storie raccolte da #quellavoltache e #metoo, le discussioni su quanto stava accadendo hanno anche consentito di mettere a fuoco, una volta di più, il tema del “consenso”, che è cosa ben diversa dall’adeguarsi subendo: chi scambia l’uno per l’altro è quantomeno in malafede, spiana la strada alla colpevolizzazione della vittima e offre un comodo nascondiglio ai soggetti che la cultura dello stupro, nelle sue infinite manifestazioni, la agiscono.
In questo modo, infatti, l’aggressione sessuale diventa, nella mentalità collettiva, qualcosa di ovvio da mettere in conto; così pensava il luccicante mondo di Hollywood (compresi gli uomini che sapevano ma hanno taciuto), ma così pensa evidentemente anche il parroco bolognese che ha pubblicato sulla propria pagina Facebook un j’accuse di estrema durezza e volgarità rivolto alla ragazza che ha denunciato di essere stata violentata alla stazione Centrale del capoluogo emiliano, dove era arrivata in compagnia di un ragazzo maghrebino incontrato in piazza Verdi.
Come già altri presbiteri in anni passati (si ricorderà ad esempio il caso del volantino «Le donne e il femminicidio, facciano sana autocritica. Quante volte provocano?» affisso sulla chiesa di San Terenzo nel 2012), nel suo post don Guidotti ragiona nei termini del “te la sei cercata”. Ma non solo: in quell’iniziale “tesoro…” ironico e sprezzante c’è già tutta la logica di spersonalizzazione con cui guarda la vicenda: l’importante non è la ragazza in sé; quello è le è successo è l’epifenomeno della “cultura dello sballo”, della “tititera ideologica dell’accogliamoli tutti”, del degrado di certe zone della città. Insomma, uno spiacevole quanto inevitabile effetto collaterale di quelli che sono i “veri problemi”.
Noi siamo convinte che si debba ragionare diversamente. Che non sia ammissibile associare, nemmeno come espediente retorico, il “divertimento” dello sballo e il “divertimento” dello stupro, e che fra uno sballo e uno stupro non ci siano nessi causali obbliganti, ma un uomo che decide di approfittarsi sessualmente di una donna incosciente.
E’ quel qualcuno a dover essere messo in discussione, cosa che il parroco non riesce a fare nemmeno nelle successive dichiarazioni. Se il caso Weinstein ha insegnato qualcosa, è che in copertina ci devono stare gli autori dei ricatti e delle violenze sessuali, non chi ne è oggetto.
Dopo, solo dopo, si può parlare di tutto il resto, se si è certi di aver ben compreso che una persona che decide di sballarsi non per questo decide di essere anche violentata.
Infine, pensiamo sia importante prendere molto sul serio il fatto che i percorsi predatori della sessualità maschile attraversano non solo i contesti degradati, ma anche il bel mondo di “gente per bene” che don Guidotti contrappone agli spacciatori maghrebini. Se così non fosse, non avremmo i dati che purtroppo abbiamo sui compagni che uccidono di fronte a un rifiuto, quelli sulle violenze domestiche e sulle molestie e i ricatti nei luoghi di lavoro e negli ambienti ecclesiali, quelli sul turismo sessuale di cui sono protagonisti ogni anno decine di migliaia insospettabili e italianissimi uomini “normali”.