Grazie dei fiori: ma sono anche per lui
L’8 marzo di una teologa della “generazione Y”: la consapevolezza dell’eredità ricevuta dalle sorelle maggiori, una pluralità che non si può più nascondere e un sogno che interpella i compagni di studio.
Le 3 di notte del 7 marzo. Si è appena chiuso il sipario su Sanremo, ed è la vigilia della Giornata internazionale della donna. Nessuna retorica: la coincidenza è evidentemente forzata ma qui, bene o male che si pensi del Festival, funziona da innesco di un pensiero, di un’immagine forse adeguata all’occasione.
Come da tradizione sanremese, infatti, durante la gara erano previsti fiori di ringraziamento solo per le concorrenti donne, e questa “galanteria” ha attirato l’attenzione di parecchi tra i concorrenti più giovani e più abituati alle tematiche di genere, che hanno reagito con piccoli ma detonanti accorgimenti. Già la prima sera il chitarrista de La Rappresentante di Lista ha “rubato” un fiore dal mazzo consegnato alle tre donne del gruppo; l’indomani Francesca Michielin ha regalato i suoi fiori a Fedez; la terza sera i Maneskin, d’accordo tra loro, hanno omaggiato Manuel Agnelli del bouquet riservato alla bassista (finché qualche rosa è arrivata ufficialmente anche ad alcuni cantanti uomini, durante la finale). È una piccola cosa, ma nel giorno dell’8 marzo uomini e donne che si passano mazzi di fiori diventano un simbolo potente per formulare un auspicio alla teologia di oggi e di domani.
I “fiori” delle teologhe
Non è accaduto molto di diverso, in fondo, ogni qualvolta un teologo maschio si è concesso di apprezzare ciò che era sempre stato delle donne: non rose e margherite, ma un metodo collettivo di elaborazione del pensiero, un’attenzione alla parzialità su tutti i fronti, un interesse alla decostruzione degli stereotipi…
È così che questi “fiori” delle teologhe hanno potuto e possono girare, diventando occasione di nuovi innesti. La speranza è che un giorno tutte e tutti avranno avuto tra le mani e arricchito il bouquet che da decenni molte donne in teologia hanno composto e offerto ai loro colleghi e alle loro colleghe. Lo stesso Coordinamento delle Teologhe Italiane per statuto si propone di «valorizzare e promuovere gli studi di genere in ambito teologico, biblico, patristico e storico», il che significa provare a mostrare ciò che una prospettiva di genere può offrire a tutta la teologia.
È per questo motivo che l’appello agli uomini è così forte da parte di chi lavora oggi sui temi del maschile e del femminile: se le donne hanno per le mani fiori, qualcosa di vitale e bello che spesso è stato ricevuto a condizioni sgradite o raccolto con fatica, c’è bisogno di uomini che “rubino” loro qualche germoglio e lo condividano senza timore di contravvenire all’etichetta.
Giovani e teologia: un vantaggio
Affinché una tale modalità di relazione accademica si realizzi, avranno un ruolo chiave le giovani e i giovani che attraversano gli studi teologici in questi anni. Chi oggi studia all’università, almeno in Europa, fa un’esperienza sistemica della precarietà e della circostanzialità: vive la flessibilità del domicilio, l’incertezza economica, la temporaneità dei contenuti “in rete” – solo per elencare tre ambiti in cui è evidente il contrasto tra noi millennial e le generazioni precedenti. I tanti risvolti negativi che questa volubilità sociale provoca sono ben noti. Eppure chi ci è nato ha anche ricevuto in dote la speciale competenza di sentirsi – o l’inquietante sensazione di essere –, un punto tra i molti… Noi giovani dobbiamo porci il problema di una pluralità che esiste. E se studiamo teologia, venendo da questo stesso mondo, possiamo allora lavorare per acconsentire a questa pluralità dall’interno, farcene carico già a partire dal nostro approccio allo studio.
Per quanto riguarda le donne, sta a noi teologhe in erba non dimenticarci da dove vengono i fiori che abbiamo ricevuto, non sprecare il percorso di parzialità che ci precede in nome di un generalismo che, per non fare torto a nessuno, fa torto a tutti. Buttare via il bouquet non è una buona idea.
Per quanto riguarda gli uomini, è invece arrivato il tempo di teologi che sappiano svincolarsi dalla presunzione di non aver bisogno di fiori, o al contrario di meritarli loro soltanto, che sono due forme parallele di isolamento.
Se c’è una cosa che questo 8 marzo dovrebbe invece ricordarci è che non vogliamo più essere soli, non vogliamo più essere sole. Ci vorrebbe insomma una teologia come un mazzo di mimose da passare mano in mano, offrire o rubare un rametto, e dirsi che si può, che vale la pena, accantonare qualche schema per guadagnarci in comunità.