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Il Regno delle Donne

Elena Pulcini: una filosofia sorella delle teologie femministe

È scomparsa la scorsa settimana, a causa del Covid, la pensatrice che ha portato le dimensioni della passione, delle emozioni e della vulnerabilità al centro della riflessione sul vivere comune, dissolvendo l’alternativa fra cura e giustizia. Un’interlocutrice e una maestra anche per le teologhe e per il loro lavoro sulla fioritura dell’essere come autentica teologia politica.

La notizia della morte di Elena Pulcini, grande filosofa delle emozioni, della vulnerabilità e della cura, è arrivata in modo improvviso venerdì scorso. Con quell’annuncio si è fissato nell’irreversibilità il vuoto lasciato nelle persone che l’hanno conosciuta e amata, ma è stato colpito tutto il mondo culturale appassionato di etica della cura. È in questo orizzonte che ho potuto “incontrare” la professoressa Pulcini. L’ho incontrata in un modo indiretto ma indubbiamente luminoso e vitale, non solo perché le sue pagine vanno dritte alle questioni più interessanti per il presente, ma anche perché lasciano trasparire qualcosa della passione intelligente di chi le ha scritte. 

La passione è politica

Vorrei ancorare questa mia espressione di gratitudine all’ultimo testo pubblicato dall’autrice, Tra cura e giustizia. Le passioni come risorsa sociale (Bollati Boringhieri 2020): in questo libro ci sono infatti passaggi che possono essere decisivi anche per il cristianesimo femminista.

In uno sfondo che dissolve la contrapposizione classica tra etica della cura ed etica della giustizia – con tutti i corollari connessi –, Elena Pulcini indirettamente invita le teologhe a misurarsi con l’imbarazzo che le tiene spesso lontane dalle tematiche della cura, della vita emotiva e affettiva e dei legami di dipendenza.

Questo disagio o esitazione ovviamente ha le sue buone ragioni. Quando una donna parla di queste cose, spesso fa l’esperienza di un suo confinamento solo nell’ambito della psicologia morale, con la conseguenza di neutralizzare sul piano politico ciò che effettivamente motiva il suo discorso: la passione per la giustizia, cioè l’istanza trasformativa dei contesti che tradiscono in molti modi le differenze. Anche nel cristianesimo, infatti, capita di patire le conseguenze di ciò che Carole Pateman ha definito contratto sessuale, un’implicita spartizione del mondo fra i due sessi che avviene “tra fratelli” che hanno assorbito l’autorità del Padre, senza memoria delle donne e dei temi tradizionalmente e ingiustamente considerati “femminili”, come quelli delle emozioni e della cura. 

Elena Pulcini ricorda invece il nesso inscindibile tra cura e giustizia: ciò che vale per l’una vale anche per l’altra, pur tenendo presenti le differenze fra i due ambiti. Non dovremmo mai separare passioni soggettive, impegni personali e pratiche comunitarie di solidarietà. La vulnerabilità e la compassione sono le due facce di una moneta unica che ricorda la nostra inaggirabile interdipendenza e prossimità e l’urgenza di combattere l'ingiustizia patita da chiunque altro. Il sentimento morale è dunque energia della giustizia. Tanti problemi teologici legati all'alternativa tra misericordia e giustizia si radicano qui e costringono a interrogarsi nuovamente sulle relazioni fra i sessi.

Diventare grandi: non autonomia, ma prossimità

In questo orizzonte le teologie delle donne sono molto più trasformative e politiche di quanto normalmente si creda. Sbilanciate sul versante della vita più che su quello della morte, sensibili più alle narrazioni che alle argomentazioni astratte, attente ai processi di fioritura dell’essere anziché alle interruzioni del peccato, queste teologie denunciano gli squilibri senza tacitare il lato affettivo della critica. Quella della giustizia è una passione, che vuole essere condivisa e trasformativa.

Si apre anche qui, dunque, un passaggio alternativo rispetto ai deprecabili modelli neoliberali del nostro tempo, in cui diventare grandi significa solo ed esclusivamente farsi autonomi, senza alcuna attenzione per tutto ciò che riguarda il mondo delle relazioni, delle dipendenze, e dell’impatto con un mondo che lascia sempre il segno nelle storie di vita. In questo senso Elena Pulcini invita ancora una volta ad avere il coraggio di indagare le motivazioni affettive che ispirano le nostre domande di giustizia, mostrando che non si tratta solo di psicologia morale, ma di teologia politica. Infatti la prossimità, perno del Dio incarnato e misura della fede cristiana che si manifesta in ciò che facciamo o non facciamo agli altri (Mt 25), è anche cura di chi è lontano nello spazio e nel tempo: verso tutti costoro si devono orientare una memoria che riscatti le vittime e un immaginario del futuro che riesca a tenere conto di quelli che verranno dopo di noi. In questo senso il lavoro di Elena Pulcini può essere collegato alla migliore teologia politica, che si fa grido e cura per coloro che soffrono ingiustamente, per quelli che sono stati sconfitti nella storia e per quelli che lo saranno domani, se tutto resterà com’è ora.

Per un nuovo inizio

Questo virus maligno ci ha paradossalmente avvicinato e allontanato da lei, che ha toccato la vulnerabilità sia con l’eccellenza del pensiero sia nella materialità della vita. Ci restano però parole tese al domani: «Il recupero della dimensione della vulnerabilità può innestare un nuovo inizio, nel momento in cui diventiamo consapevoli di essere esposti alla perdita del mondo e del futuro», diceva intervistata al Festival della Filosofia di Modena nel 2019 (https://bit.ly/3a8XFhk).

In queste parole sento un appello rivolto anche alle teologie delle donne, che possono contribuire a costruire memorie meno ingiuste e farsi attente a un presente capace di preparare nuovi inizi attraverso buone alleanze. 

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