«Donne, vita, libertà»: la parola dei corpi contro la violenza patriarcale
Le donne iraniane stanno pagando con la vita la ribellione a un potere maschile, ammantato di sacro, che vieta loro di essere quello che desiderano essere. Facciamo risuonare e condividiamo la loro protesta: per non lasciarle sole, ma anche perché nella domanda femminile di libertà è in gioco il benessere sociale, politico, economico e religioso del mondo che abitiamo insieme.
Da tre settimane le piazze iraniane sono agitate da un vento di protesta che è arrivato fino a noi. Ragazze giovanissime sono entrate in rivolta contro il governo guidato dall'ayatollah Ali Khamenei, controllato da una polizia morale (per modo di dire) che arresta, picchia, tortura e uccide le donne che osano sfidare l’obbligo di portare l’hijab, o che non lo indossano nella maniera prevista dalla legge. Si sono tolte il velo per strada, lo hanno bruciato nei falò e poi si sono messe a ballare pubblicamente.
Il patriarcato non tollera la libertà delle donne
Le loro immagini ci hanno ricordato l’insicurezza e la provvisorietà della libertà femminile nel mondo e la brutalità di cui è capace un patriarcato messo in discussione. La religione qui c’entra, ma non nel senso affermato da un certo laicismo o dall’imperialismo culturale d’Occidente. Il problema infatti non è l’Islam e non è nemmeno il velo in sé, dato che in varie parti del mondo le donne lo indossano volontariamente per sentirsi vicine a Dio. Il problema, piuttosto, è un patriarcato ammantato di sacralità e declinato in forma teocratica, che per diritto divino si sente autorizzato a imporsi, anche con la violenza.
Ora però c’è qualcosa di nuovo nell’aria. È come se le storie di queste donne lontane si fossero avvicinate alle nostre, generando solidarietà e pensieri condivisi. Quel piccolo pezzo di stoffa che copre i capelli delle altre ci appare ora come tassello di un disegno più grande e ci invita a prendere posizione contro un patriarcato che ha bisogno di decidere quanto e come una donna debba esporsi sulla scena pubblica, sugli scranni dei tribunali, dei parlamenti o degli altari, che piega le ribelli a percorsi di “rieducazione” o di addomesticamento di sé nel nome del bene comune, che trova sempre un pretesto per uccidere le donne più libere che hanno detto no a un uomo, a una regola, a un’abitudine, a una cultura.
Non più sole a lottare
La novità è che queste donne non sono sole. Con loro ci sono gli amici e i compagni di scuola, ma anche persone adulte e anziane. Insieme rivendicano una libertà corporea perduta o forse mai avuta (cfr. l’interessante articolo di Isaac Chotiner su «The New Yorker»).
Queste donne non sono sole anche perché – e finché – noi parliamo e scriviamo di loro, seppure dalle nostre scrivanie comode e lontane. Le condivisioni verbali a distanza non fanno certo miracoli, tuttavia possono generare un tessuto simbolico di buone alleanze.
È quello che ci chiede Tina, una ragazza francese di origine iraniana che con un video sulla storia di Mahsa Amin ha ultimamente raggiunto i nostri cellulari. La storia di Mahsa la conosciamo ormai bene. Nata a Saqqez, si trovava in visita a Teheran con la sua famiglia quando viene arrestata, picchiata e torturata dalla polizia del “buon costume”. Muore tragicamente a 22 anni, dopo essere entrata in coma.
Masha non è morta perché ha indossato male l’hijab. Non è morta perché ha lasciato fuori un ciuffo di capelli. È morta per le percosse e le torture subite da uomini ostili alle differenze, che se la prendono con lei per la sua libertà femminile e forse anche per la sua appartenenza alla minoranza curda, da sempre in opposizione alla Repubblica islamica. Questo intreccio di differenze l’aveva resa particolarmente vulnerabile, ma è stata la violenza di un certo mondo maschile a ucciderla e poi a nascondersi: dopo il delitto, le autorità iraniane hanno fatto sapere che il decesso di Mahsa è da attribuire a uno stress fatale collegato alle conseguenze di un’operazione al cervello subita all’età di otto anni.
Nel video che sta facendo il giro del mondo, Tina ci chiede risonanza con tutto questo, cioè ci chiede condividere notizie, pensieri, memorie, eventi, biografie per essere la voce o il grido delle iraniane. Ci invita a essere anelli di trasmissione non solo per Mahsa Amin, ma anche per tutte le altre che purtroppo l’hanno preceduta e seguita. Recentemente è stato rinvenuto il corpo di Nika Shakarami, la ragazza di 17 anni scomparsa dopo aver partecipato a una manifestazione per la morte di Mahsa. Dopo dieci giorni di ricerche, Nika viene trovata per terra, immobile, con la testa fracassata e il naso rotto. Nel suo ultimo messaggio vocale a un’amica diceva spaventata di essere inseguita dalla polizia. La versione ufficiale della magistratura di Teheran, però, riporta che Nika è morta per essere caduta da un edificio. Ora siamo in ansia per Alessia Piperno, la travel blogger attualmente rinchiusa per gli stessi motivi, nel carcere di Teheran.
Cosa dicono i corpi
Corpi coperti e s-coperti cadaveri, corpi che mancano, corpi che gridano, corpi seduti alla scrivania che cercano e trovano parole: in questa disparità sono i corpi – qui sinonimo di vite incarnate – a domandare una nuova attenzione, e per diversi motivi.
In primo luogo, perché le donne iraniane stanno giustamente pretendendo una libertà corporea che a ben guardare va oltre il vestito e si presenta come libertà di essere quello che si è.
In secondo luogo, perché è con il corpo e con i suoi gesti che le donne sostengono la rivolta: scendono in piazza, si scoprono il capo e – da noi – si tagliano i capelli. È il corpo la loro arma principale, un’arma che rimane pacifica anche nella rabbia.
I corpi, inoltre, parlano. Nelle manifestazioni iraniane risuonano parole generative: donne, vita, libertà. Nello slogan del 1979 – pane, lavoro, libertà – non c’era traccia di questa soggettualità politica femminile. La novità, tuttavia, non sta nel fatto che le donne ora siano al comando del movimento, ma che attorno a loro si stiano stringendo altri: si comincia a cogliere che il disagio delle donne è spesso connesso al malessere di tutto il contesto.
In questa forma condivisa sta la speranza per le donne iraniane, dato che non è facile mettere in prigione le parole e i gesti, così come non è facile liberarsi delle persone che lottano e agiscono insieme per qualcosa di vitale. In questa forma condivisa sta però anche la nostra speranza, perché abbiamo l’occasione di comprendere la stessa cosa: nella domanda femminile di libertà è in gioco il benessere sociale, politico, economico e religioso del mondo che abitiamo insieme. È venuto il tempo di legami giusti.