Donne in silenzio, nonostante il Concilio. Speriamo nel Sinodo
Cerimonia e liturgia per la chiusura dell’anno accademico in una facoltà teologica della Chiesa greco-cattolica: nessuna donna prende la parola; alle studentesse solo il ruolo di comparse.
Cerimonia di chiusura dell’anno accademico in una facoltà di teologia greco-cattolica. Finisce il proprio percorso educativo un piccolo gruppo di studenti, metà femmine, metà maschi, di varie età, con varie missioni nella chiesa e nella società o magari desiderosi di assumerne. Durante la cerimonia nessuna donna apre la bocca. Nemmeno durante la liturgia che la precede.
Il rito bizantino è teoricamente dialogico, alle varie preghiere dei preti e diaconi il “popolo”1 risponde per lo più tramite un “Signore, abbi pietà di noi!” (pure quando i “celebranti”2 pronunciano varie intercessioni o “Ringraziamo il Signore” e forse sarebbe adatto variare un po’ tale formula)3. La parte che spetta ai fedeli laici è la recita (o il canto) delle beatitudini e di più simboli di fede, e qualche preghiera prima e dopo la consacrazione, prima e dopo la comunione, di solito coprendo varie preghiere pronunciate “in segreto” (ricche di contenuti teologici) riservate al solo “clero”; ed ecco l’“iconostasi sonora” (secondo una formula di Evdokimov) che separa – accanto a quella tradizionalmente presente nei nostri spazi liturgici4 – “clero e popolo” (come recita del resto la liturgia stessa)5.
Meglio un uomo, meglio un seminarista
Quando però c’è un coro, il “resto” dell’assemblea di solito esita a coinvolgersi anche in questi momenti dove è possibile sentirsi minimamente compartecipe. E qui c’era quello dei seminaristi (oltretutto messosi in disparte, in un balcone situato più in alto rispetto agli altri), che ha riservato a sé praticamente tutto, inclusa la lettura dell’“apostolo”6. In un altro anno accademico mi ero permessa di suggerire agli organizzatori di affidare quest’ultima a una delle alunne, perché i colleghi laici si sentissero inclusi. L’udire la voce di una donna in simile contesto produsse però grande sconcerto tra chi si trovava nell’altare, a cominciare con il vescovo di allora. Di fatti, a sessant’anni dal Vaticano II, la mentalità è ancora ferma all’idea che, nel caso in cui c’è un uomo (o a maggior ragione un “teologo”7) che possa compiere l’ufficio di cantore, abbia precedenza nel farlo8 (e lì di nuovo c’era un gruppo di seminaristi).
Non è che non ci siano delle comunità dove le donne compiono tale ufficio, sia per una più grande apertura delle medesime, sia per necessità. Ma non sarebbe proprio la facoltà teologica chiamata a essere in prima linea nel portare le cose un po’ avanti nel senso del riconoscimento della dignità dei laici e specialmente delle donne e del loro rispettivo ruolo (anche) nella liturgia? E questo mi fa ricordare un’altra esperienza. Durante un team building, celebrammo una messa con tutti i colleghi della facoltà. La maggioranza, presbiteri, erano al di là dell’iconostasi. Tra i pochi laici e laiche uno dei preti scelse un maschio per cantare l’“apostolo”. Siccome questi non si sentiva che di leggerlo, lo stesso prete pregò il parroco di fare il cantore; e costui cantò tutta la liturgia, con il risultato che nessuno riuscì a seguirlo9. Avevamo sacrificato la comunione per il culto.
Questione di ecclesiologia. E di persone
Per tornare alla nostra cerimonia… Sul palco, accanto agli ormai ex-alunni, solo uomini. È vero, anche un laico (accanto a un vescovo e due preti, questi ultimi dirigenti), colui che propose l’ultima lezione. Il discorso degli studenti dell’ultimo anno è stato pronunciato da un seminarista; anche quello di addio a nome dei colleghi che finiranno gli studi solo l’anno prossimo. È stato sempre un seminarista a fare il moderatore. A differenza di altri anni, le donne non hanno nemmeno aperto bocca durante l’intera cerimonia, sebbene ci fosse fra loro chi avrebbe potuto trasmettere un messaggio consistente. Le ex-studentesse, presenze non di rado veramente arricchenti nei gruppi di studio, hanno fatto solo da comparse: e(dis)poste sul podio (insieme ai colleghi), sono state coinvolte solo nel passaggio delle chiavi e nell’offrire dei fiori a una parte dei prof.
Si saranno ritirate per timidezza? Saranno state messe da parte a causa della prepotenza dei colleghi “teologi”10? Il tutto sarà stato organizzato piuttosto con un certo spirito di inerzia e senza troppa attenzione ai “dettagli” (che in questo caso poi, come in tanti altri, significa scarsa attenzione ai nostri simili, alle nostre sorelle, ai nostri fratelli)? Sarà immaginabile un altro approccio alla cerimonia dell’inizio dell’anno accademico che si avvicina? Temo di no, se non prendiamo consapevolezza della necessità di recepire l’ecclesiologia del Vaticano II – una premessa anche per poter abbracciare la dinamica sinodale (comunionale, partecipativa, inclusiva) che ci propone papa Francesco – fin dentro all’ultima fibra del vissuto ecclesiale (incluse la liturgia e le mentalità) e non soltanto nelle nostre teologie.
Oppure sarà proprio la nostra incapacità a distaccarci dall’ecclesiologia precedente che ci impedisce di cambiare qualcosa nel nostro modo di pensare e nelle nostre pratiche? Sarò idealista, ma io spero che – se non ebbe l’occasione di cogliere la novità del Vaticano II durante il periodo di entusiasmo postconciliare – la mia Chiesa coglierà l’occasione di farlo durante l’attuale sinodo.
1 Nome applicato generalmente ai soli fedeli laici nella “divina liturgia” e riservato agli stessi nella mentalità comune in assenza di una reale ricezione della Lumen gentium.
2 Penso che la prospettiva più comune tra i fedeli greco-cattolici sia ancora proprio quella di “assistere” alla divina liturgia, e non parteciparvi, e di identificare i celebranti con i soli clerici.
3 La Chiesa greco-cattolica rumena non ha attuato una riforma liturgica dopo il Vaticano II, benché ci fossero delle preoccupazioni in questo senso già prima del concilio e anche durante il periodo comunista. A causa delle condizioni storiche, la recezione dello stesso è stata rallentata anche in altri campi della vita della Chiesa.
4 Lo spazio liturgico dove si svolgeva il tutto ne è piuttosto un’eccezione, avendolo appena schizzato tramite qualche icona. Nella foto, l’esempio di uno più classico.
5 E se già tale distinzione è presente tra i docenti e formatori dei nostri studenti, lo è anche in seno agli stessi: non appena ricevono gli ordini minori, i seminaristi cominciano a definirsi in termini di “noi, preti”.
6 La lettura fatta prima del Vangelo, di solito tratta dall’epistolario paolino.
7 Come ancora capita sentir chiamare nell’ambito greco-cattolico rumeno i seminaristi.
8 Più precisamente, il terzo concilio provinciale (1900), nella logica dei suoi tempi, non prevedeva nemmeno la possibilità che, in assenza del “popolo”, sia una donna a offrire le risposte liturgiche. Lo stesso interdiceva espressamente l’accesso dei laici e soprattutto delle donne nell’altare, incoraggiando invece il coinvolgersi delle stesse nella pulizia (abbellimento) delle chiese.
9 Le linee melodiche possono variare non soltanto da un’eparchia all’altra, ma pure da una comunità all’altra e dipendono molto anche dal talento (o meno) del cantore.
10 A pensarci bene, non so se ho mai sentito il corrispondente femminile di questo termine per disegnare le nostre studentesse.