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Il Regno delle Donne

Donne contro la guerra

L’8 marzo è una ricorrenza politica. Due giovani studentesse di teologia provano a rileggere la storia di questa data alla luce dei recenti avvenimenti di guerra, passando per la figura biblica di Giuditta, donna di fede e coraggiosa cittadina.

 

È delicato parlare di lotte, violenza e libertà, nel momento storico che stiamo attraversando. L’8 marzo ci chiama a questi temi, e inevitabilmente fa risuonare i dolorosi eventi che stanno accadendo in Ucraina. Eppure non vorremmo fare un’analisi di politica internazionale, per la quale non abbiamo competenza: siamo due giovani studentesse laiche di teologia cattolica e scriviamo a quattro mani. Scriviamo mentre altrove piovono le bombe, perché la data di oggi richiama ogni donna al suo ruolo di cittadina. La storia dei movimenti femministi, anche in teologia, continua a sollecitare le donne (e gli uomini) a pensare insieme la pace.

“Noi no!”

Nelle prime manifestazioni femministe le donne rivendicavano fortemente il proprio ruolo nella società. Le lotte per ottenere il diritto di voto, per non essere ignorate come soggetti e per far valere la propria competenza nelle decisioni della comunità facevano seguito a questo giusto desiderio di riconoscimento e di partecipazione. Un desiderio che si è subito affiancato a una speranza di pace: dal primo Novecento in avanti, le donne si mobilitavano infatti contro guerre che sottraevano loro figli, figlie e mariti e gettavano in peggior miseria quante di loro erano già in difficoltà, le operaie, le contadine. Da sempre, mentre reclamano il loro “Anche noi!” alla vita pubblica, le donne oppongono un “Noi no!” alla guerra.

Giuditta interviene

C’è una figura, nell’Antico Testamento, su cui ci piace meditare in questo 8 marzo. Si tratta di Giuditta, la famosa decapitatrice di Oloferne. La sua storia dà nome a un intero libro, che è denso di descrizioni di guerra e di soprusi. Il re degli Assiri Nabucodonosor, infatti, vuole essere riconosciuto come un dio, e ha una precisa strategia per affermare la sua divinità: occupa territori senza alcuna considerazione per le minoranze, anzi puntando alla maggior omologazione possibile, e ai popoli che gli si oppongono risponde togliendo i mezzi di sussistenza fino allo sfinimento.

Queste sono le tremende armi dell’aggressore e, come in ogni lotta, anche gli aggrediti devono scegliere di volta in volta le proprie. È la situazione degli abitanti di Betulia, dove vive anche Giuditta, accerchiati da giorni dall’esercito del re. Oloferne, il capo delle truppe di Nabucodonosor, ha ridotto la città in una situazione così tragica che gli anziani capi rivolgono a Dio un ultimatum: o libererà Betulia, o si sottometteranno al nemico.

Ma Giuditta interviene. Lei è una donna, vedova, sola; conosce la propria debolezza, eppure sa di essere forte e saggia, sa di quale coraggio è capace. Si presenta dunque ai capi di Betulia, entrando direttamente nella vita politica della città: “Ascoltatemi: non è un discorso giusto quello che avete tenuto al popolo” (Gdt 8,11). Parla con autorità e si assume la responsabilità di un piano alternativo, a cui è bene che tutti prestino orecchio: “Ascoltatemi: voglio compiere un’impresa” (8,32).

La proposta non prevede tornaconti personali: Giuditta non combatte per sé stessa ma per salvare il suo popolo, e lo fa perché si fida del suo Dio. Mette a disposizione della sua gente quello che lei è.

Mentre parla agli anziani, ha accanto un’altra donna, la sua ancella. Ella rimane con lei nei preparativi alla spedizione, e con lei esce dalla città verso l’accampamento nemico, portando il vino e l’olio che Giuditta userà per ingannare Oloferne. L’ancella è messa a parte dei pensieri e delle scelte della sua signora, che non compie mai alcuna mossa in completa solitudine: un’altra prova che Giuditta agisca per altri e per il bene.

Perfino la violenza che esercita uccidendo Oloferne con la spada è l’opzione estrema ammessa solo per fermare definitivamente la guerra. Il gesto finale della decapitazione non è segno di crudeltà né di oppressione, ma della Sapienza che Giuditta riceve da Dio. A lui l’eroina si rimette continuamente in preghiera, è lui che garantisce la fine della spirale del male.

Quanto più teologhe, tanto più cittadine

Non sempre e non dappertutto le donne sono capaci di far valere la propria autorità con l’originalità di Giuditta. Nonostante la loro storia – l’8 marzo ne è la traccia – le abbia a lungo esercitate a lavorare insieme e per l’intera comunità, a volte è più facile adeguarsi ai meccanismi machisti e militaristi che in gran parte reggono la società. Il femminismo custodisce allora lo spirito di Giuditta, che non ha agito per sé né sola: così, far sentire la propria voce è sempre a favore di tutti. Anche nella nostra Chiesa ogni persona dimenticata toglie forza allo Spirito e alla comunità intera.

C’è un legame tra inclusione e pace, solidarietà e giustizia. Il femminismo ovunque sprona la coscienza civile e la creatività nel gestire i conflitti.

Per noi significa che quanto più siamo teologhe, tanto più siamo cittadine. Quanto più ci si riferisce a Dio, tanto meno ci si può sottrarre alla propria responsabilità sociale.

Commenti

  • 10/04/2022 lucy.montatore@libero.it

    La guerra in Ucraina ha ulteriormente aumentato la divisione tra uomini e donne. Gli uomini tutti al fronte, ai lunghi tavoli delle trattative per la pace dai cui non hanno concluso niente, dall'altra parte come sempre le donne, dedite a difendere e sostenere con tutte le loro forze, i figli, i più deboli, gli anziani, provvedere al loro sostentamento quotidiano, ed essere esse stesse oggetto di aggressione e di violenza fisica.

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