d
Il Regno delle Donne

Dimmi come ti vesti...

In area cattolica si parla molto di cambiamenti epocali e della necessità di una riforma sistemica della Chiesa. Ma c’è qualcosa che resiste ostinatamente al mutare dei tempi: i “costumi di scena” ecclesiastici. Forse è davvero il momento di rinnovare il guardaroba, per aiutare a rinnovare menti e cuori.  

Nel suo discorso alla curia romana del 21 dicembre 2019 papa Francesco ha fatto un’affermazione che mi sembra riassumere con lucidità la sua visione del momento storico nel quale viviamo. Dopo aver ricordato le parole del santo cardinale Newman secondo il quale «Qui sulla terra vivere è cambiare, e la perfezione è il risultato di molte trasformazioni», Francesco ha ripreso quanto aveva già affermato al Convegno della Chiesa italiana di Firenze 2015 («quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca») insistendo sul fatto che  «Siamo, dunque, in uno di quei momenti nei quali i cambiamenti non sono plineari, bensì epocali; costituiscono delle scelte che trasformano velocemente il modo di vivere, di relazionarsi, di comunicare ed elaborare il pensiero, di rapportarsi tra le generazioni umane e di comprendere e di vivere la fede e la scienza».

L’abito parla di noi

Di fronte alla forza di questa impegnativa dichiarazione, quanto sto per dire suonerà, a dir poco, inadeguato. Se non fosse che è stato il papa stesso a farmici pensare quando ha aggiunto: «Capita spesso di vivere il cambiamento limitandosi a indossare un nuovo vestito, e poi rimanere in realtà come si era prima. Rammento l’espressione enigmatica che si legge in un famoso romanzo italiano: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” (ne Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa)». Francesco ha abbinato, insomma, cambio d’epoca e cambio di vestito per sottolineare, però, la sostanziale distanza che separa l’uno dall’altro.

Da tempo, invece, io mi domando se proprio l’incapacità di cambiare gli abiti, cioè il proprio modo di «relazionarsi, di comunicare ed elaborare il pensiero» nonché di rapportarsi al mondo, non sia un segno tangibile della strutturale difficoltà della nostra Chiesa ad accettare quelle che Francesco stesso ha definito le «scelte che trasformano velocemente il modo di vivere». Quando guardiamo le fotografie del nostro recente passato la prima cosa che ci salta agli occhi e che ci dà la misura di “come eravamo” e dei cambiamenti che sono stati davvero “epocali” sono proprio gli elementi di costume che marcano la differenza: lunghezza degli abiti, acconciature dei capelli, modelli di scarpe.  

«Vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione»

Non so se sia una banalità. Non lo credo, e chiamo a testimone quanto successe pochi giorni prima della chiusura del Concilio Vaticano II, il 16 novembre 1965. Il fatto è noto: una quarantina di padri conciliari si riunì nelle catacombe di Domitilla per proclamare e firmare il Patto delle catacombe, che verrà poi firmato anche da qualche centinaio di altri vescovi. Lasciamo da parte il tanto che si può dire da molti punti di vista su quel momento di collegialità ecclesiale e sui suoi significati reali e simbolici, nonché sul fatto che nel 2019, al termine del Sinodo sull’Amazzonia, 150 vescovi hanno voluto rinnovare, nello stesso luogo, quelle stesse promesse. Mi limito a osservare qualcosa che ha però, a mio avviso, una portata davvero “epocale”.

I primi due articoli di quel documento, che per alcuni padri conciliari traduceva immediatamente in pratica quanto vissuto e deciso al Concilio, suonano così:

    «1. Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto che da qui discende. Cfr. Mt 5,3; 6,33s; 8,20.

  1. Rinunciamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti (stoffe ricche, colori sgargianti), nelle insegne di materia preziosa (questi segni devono essere effettivamente evangelici)».

 

Gli abiti, dunque, le stoffe, i colori: tutt’altro che folcloristico, ma sarebbe sciocco circoscriverlo a un impulso pauperistico. Anche quando scorrono sugli schermi delle nostre televisioni, le immagini dei “costumi di scena” clericali confermano la percezione di una distanza sempre più incolmabile, ben lontana dalla determinazione di vivere «come vive ordinariamente la nostra popolazione». Sono segni, ma sono anche segnali dell’incapacità a pensarsi nel tempo e dell’ostentazione della pretesa che ciò che cambia è solo accidentale perché in realtà non è vero che “todo cambia”. Gli apparati religiosi sono sempre i “guardiani della rivoluzione”!    

Creare nuovi stili è questione sostanziale

A nessuno, certo, può essere imposto di fare come Francesco d’Assisi che si spogliò pubblicamente davanti a suo padre per stabilire il punto di non ritorno del suo cammino di conversione.  Ma siamo proprio sicuri che se papa Francesco, magari con un motu proprio, decretasse del tutto finita l’era delle sottane e dei bottoncini rossi, delle mantelline e dei pileoli, siamo proprio sicuri che non darebbe così un colpo di accelerazione a quella riforma sistemica della Chiesa di cui tanto c’è bisogno, di cui tanto si parla e che stenta invece a imboccare le strade del possibile?

Il discorso si fa ancora più delicato, ma non meno urgente anche per quanto riguarda l’ambito liturgico. Eppure, tutte le volte che, in mondovisione, ondeggianti processioni di mitrie percorrono la navata di San Pietro per poi essere costrette a quei continui “su e giù” dalle teste canute di chi le indossa di cui è difficile capire qualsiasi possibile significato, non posso fare a meno di domandarmi se, nel caso della Chiesa e del suo apparato, il ragionamento di Francesco non andrebbe ribaltato: creare nuovi stili è sostanziale, non marginale. Forse, cliccare su Google-immagini il termine “mitria” può aiutare a capire.

Ciò non significa certo convocare un “sinodo” di stilisti perché disegnino nuove divise come avviene regolarmente per le compagnie di bandiera o le truppe militari. Significa interrogarsi però, e a fondo, sull’ecclesiologia di cui sono palese attestazione le “divise ecclesiastiche”. Spesso si coltiva la pretesa che le divise non facciano vedere che “il re è nudo”. Francesco, poi, ha ragione: soprattutto in ambienti ad alto tasso di ipocrisia funzionale il pericolo della simulazione gattopardesca è quanto mai reale. Non è molto peggio, però, cedere alla paura di questo pericolo e accettare la paralisi?

Commenti

  • 17/04/2022 penelopina2007

    Quarantenni in blue jeans? Magari cara sorella .... i sacerdoti quarantenni di oggi vanno in giro in talare addirittura dalle mie parti .... cosa che la generazione prima non faceva .... di male in peggio!

  • 23/08/2021 Giovanni Lupino

    "Guardare il mondo con gli occhi trasparenti di un bambino". E' una canzoncina che risuona spesso nelle nostre chiese. Senza filtri e censure. Gesù si vestiva come gli operai del suo tempo. Non si è mai vestito come preti, frati e tantomeno vescovi e cardinali. Pietro non ha inventato né il seggio né i vestiti dei papi. San Francesco si vestiva come il più povero dei poveri, non mi risulta facciano altrettanto i Francescani. Gesù e Francesco non mi risulta avessero velleità riformiste "gattopardesche". Certo che con l'abito deve cambiare la testa. Ma la piaga, della persistente abissale distanza dell'alto clero dal popolo di Dio, denunciata dal Rosmini, è ancora più purulenta. Dovrebbe rinascere un nuovo Erasmo, con la sua Follia, o un nuovo Fellini con le sue sfilate di mummificati ecclesiastici. Per il momento ci accontentiamo di Crozza e della Littizzetto. Mi vesto come mio padre e i miei fratelli, cugini e cognati, anzi molte volte proprio con i loro abiti dismessi, da sempre. I miei abiti liturgici sono essenziali e leggeri. Non credo proprio che renderei al Cristo un servizio migliore con pianete, dalmatiche o piviali dorati, né credo accrescerebbero la mia regalità sacerdotale che è patrimonio comune con tutti i battezzati. Non partecipo alle messe più brutte che ci siano in diocesi che sono i pontificali concelebrati in Cattedrale. E resto sereno e imperturbabile, poiché mi sento libero da una zavorra che non ha futuro. Sono ormai rifiuti che bruceranno nella "geennà". Ovviamente questo contribuisce a creare distanza ed esclusione, ma è un prezzo da pagare, col sorriso però e con leggerezza. E' un mondo che non ci appartiene più. Il meglio finirà in un museo, il resto nei rifiuti. Il vero cambiamento però non lo farà né il papa né il clero, ma i giovani e soprattutto le donne quando sapranno accogliere lo Spirito del Cristo senza troppe mediazioni clericali. Soprattutto le donne come Marinella Perroni e le amiche teologhe che già, dopo tante battaglie, hanno imparato a tener testa all'onnipotenza delirante dei clericali, preti e laici che siano. Marinella Dio vi benedica. Giovanni Lupino, prete, Savona.

  • 02/07/2021 Lettera firmata

    I giovani scappano dalle parrocchie... forse qualcuno inizierebbe ad avvicinarsi di più se il Patto delle Catacombe, almeno su qualche punto, venisse realizzato. Ci sono tante famiglie che non arrivano a fine mese...

  • 23/06/2021 Felice Scalia

    Marinella carissima quel Patto delle Catacambe (che evoca in me Puebla, Medellin, Congregazione generale XXXII dei gesuiti, P. Arrupe ecc.) mi illumina ancora, come mi inquieta la loro dimenticanza. Grazie del tuo intervento. Un mio amico che ha un negozio di arredi sacri mi confidava la notizia che all'epoca di Giovanni Paolo II una commissione di stilisti disegnò i paramenti, linea anticoncilio, e c'è chi ha ripreso la "coda" cardinalizia. Mala tempora questo rigurgito di clericalismo ... Un grande abbraccio Felice

  • 23/06/2021

    Sarebbe una scelta anche di povertà evangelica...i colori in uso per le divise ecclesiastiche sono esclusivi e molto costosi...E poi il clergyman appare così sobrio ed elegante al contempo! Secondo me....

  • 18/06/2021 Federica Spinozzi

    Grazie per questa riflessione! Tutto l'apparato esteriore della Chiesa non è solo apparenza, ma sostanza pura che contribuisce all'immagine di potere, tanto lontana dal Vangelo e dallo stile di papa Francesco! Indicazioni chiare in tal senso sarebbero auspicabili, pur sapendo che alcuni saranno critici e restii al nuovo. Il timore è che tra i giovani preti lo stile pomposo sia assai amato... Attendiamo fiduciosi che il papa si esprima e ci auguriamo che siano i preti stessi a desiderarlo e a rinnovarsi autonomamente.

  • 18/06/2021 F. D'Arcais

    Perfettamente d'accordo.

  • 18/06/2021 Elisabetta Manfredi

    Eh sì, quante volte ho sorriso al continuo metti e leva della mitria durante la messa: il giovane cerimoniere che se ne occupa pare molto compunto nel suo ruolo, il vescovo sembra subire con poca convinzione e lo zuccotto viola resta poi sempre storto... Battute a parte sarebbe davvero ora di togliere sottane e bottocini rossi. Il clergyman é più che sufficiente di questi tempi in cui anche i quarantenni vanno in giro con jeans bucati sulle ginocchia, e una tunica bianca con stole diverse secondo il periodo liturgico non toglierebbe nulla alle celebrazioni, evitando en passant che molti parroci investano capitali non loro, ma delle parrocchie, per guardaroba dove non manca neppure il rosa, colore che si usa, se si usa ancora, pochissime volte e neanche obbligatoriamente. Non sono liturgista, lo avrete capito, ma gli occhi li abbiamo, e anche il cervello...

Lascia un commento

{{resultMessage}}