«Ci è stato dato un figlio»… maschio
Il sesso di Gesù è stato a lungo usato come giustificazione per escludere e sminuire le donne. Ma leggendo bene i Vangeli vediamo che il suo modo di essere uomo scalza alla radice la presunzione maschile di superiorità e autosufficienza. È una buona notizia che ha ancora molto da dirci.
Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio maschio.
Gesù nasce dentro una storia mediocre, quella dell’Israele del suo tempo privo di patriarchi, profeti e re (cf. Mt 1,1-17), per essere il salvatore di tutti, a cominciare dai più poveri e bisognosi, fra i quali sempre – anche oggi e anche nei paesi più avanzati – le donne sono in prima fila e in maggior numero.
Eppure, nonostante questa indubbia buona notizia che riguarda per primo/a proprio chi è in posizione di svantaggio, la maschilità di Gesù è stata per secoli (millenni) un motivo per rendere la buona notizia meno buona per tutte le donne, che non sono maschi come era Gesù, quindi devono rassegnarsi a essere della classe umana che gli somiglia di meno, che non lo può rappresentare e che non può indicare Dio, perché in fondo il femminile è debole, deficitario, con doti utili o persino indispensabili, ma sempre irrimediabilmente secondo.
Il fatto che Dio si sia incarnato in un maschio fa vedere tutto questo con straordinaria evidenza, senza bisogno di aggiungere nulla. Per poi edulcorare la pillola, si dice alle donne di guardare a Maria, perché così scopriranno che anche loro hanno un riferimento importante. Certo un riferimento che non potranno mai imitare, perché nessuna sarà vergine e madre, ma comunque possono vantare questo prototipo del proprio genere che tutti ammirano nella Chiesa e che tutti ritengono superiore persino agli apostoli e ai ministri[1].
Gesù, la Sapienza fatta carne
Dobbiamo rassegnarci al fatto che il Vangelo riproponga questo tipo di gerarchie? Dovremo rassegnarci anche oggi, quando una tale classificazione richiama un’odiosa discriminazione che fa della Chiesa uno scandalo invece che una testimone della comunione che Dio realizza? E, se invece di rassegnarci, leggessimo meglio i Vangeli? Se non ci fermassimo al fatto che Gesù è nato maschio, ma ci chiedessimo come ha vissuto in quanto maschio? E se scoprissimo che il modo in cui lui ha voluto essere maschio fosse per le donne assolutamente liberante perché capace di segnare la fine di ogni gerarchia fra i sessi?
In parte questo accade già nella rilettura che gli evangelisti – forse ignari della portata che questa poteva avere per la fine della gerarchia fra i sessi – fanno della vicenda di Gesù, accostandolo alla Sapienza.[2] Lui è la Sapienza incarnata, colei che giocava con Dio e che era con lui prima della creazione del mondo e che entra nella creazione del mondo come logica di tutte le cose, che poi gli esseri umani devono scoprire e che Israele vede brillare nella Legge. Gesù è colei che imbandisce un banchetto per sfamare tutti, colei che insegna la giustizia e allontana il male.
Forse questa rilettura degli evangelisti è stata indotta dallo stile di Gesù, attento al vissuto femminile, incapace di disprezzarlo e quindi pronto a prendere esempio da categorie femminili e da incontri con donne per comprendere come Dio agisce. Un maschio che non si sente autonomo e superiore rispetto alle sue sorelle, ma che cerca la loro compagnia, il dialogo, la fede che loro vivono.
Nessun ruolo specifico e un discepolato condiviso
Gesù è stato un maschio che non ha avuto paura di spiegare la propria opera tramite il vissuto femminile: preparare un pasto, dare il proprio corpo come cibo, dissetare con l’acqua che sgorga dal seno, travagliare per far vivere. Gesù sceglie di vivere fuori dai contesti sociali e religiosi del suo tempo,[3] fuori dalla struttura familiare patriarcale e sessista, fuori dalla struttura religiosa (anch’essa sessista) e così può inaugurare uno stile nuovo in cui maschi e femmine possono stare insieme in forza di un discepolato condiviso (cf. Lc 8,1-3 per esempio).[4]
Niente ruoli, niente esaltazione della verginità (mai Gesù se ne occupa) né della maternità (al contrario abbiamo la correzione da parte di lui della donna che esaltava il ruolo materno di Maria in Lc 11,27-28), niente sottomissione, niente ruoli privatistici o domestici, nessuna limitazione, nessun pregiudizio, nessun disprezzo: ogni volta che Gesù si trova davanti ad una donna, vede solo una sorella, una figlia di Abramo, una persona bisognosa di liberazione o ricca di sapienza, vede un essere umano affascinante.
Il bisogno dell’alterità per relazioni liberanti
E qui si rivela il cuore della maschilità alla quale, se proprio dobbiamo riconoscerne una, dovremmo attribuire questa specificità: l’essere attratti dalla femminilità. Intendo qui un’attrazione non primariamente sessuale, ma il fascino per quella modalità di essere umani diversa dalla propria, che i maschi non hanno e di cui (a prescindere dall’attrazione sessuale e anche dall’orientamento sessuale) dovrebbero sentire il bisogno per costruire relazioni fraterne e liberanti. Gesù ha vissuto così e le tracce del suo stile non sono facili da cancellare: anche se ben presto nella Chiesa ha ripreso vigore un altro dire e un altro fare, il Vangelo resta inesauribile fonte di buone notizie.
Davvero un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Un maschio così: finalmente.
[1] Per i dettagli e le critiche a questa posizione si può vedere E. Johnson, Vera nostra sorella. Una teologia di Maria nella comunione dei santi, Queriniana, Brescia 2005.
[2] Riferimenti bibliografici obbligati sono: E. Johnson, Colei che è. Il mistero di Dio nel discorso teologico femminista, Queriniana, Brescia, 1999; E. Schüssler Fiorenza, Gesù figlio di Miriam, profeta di sophía: questioni critiche di cristologia femminista, Claudiana, Torino 1996.
[3] Cf. H. Moxnes, Putting Jesus in his place. A radical vision of household and kingdom, , Westminster John Knox press, Louisville- London 2003.
[4] E. Schüssler Fiorenza, In memoria di lei. Una ricostruzione femminista delle origini cristiane, Claudiana, Torino 1990.