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Il Regno delle Donne

Allora Miriam cantò davanti a loro

Nella liturgia della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani di quest’anno ci sono anche il canto di Miriam e la danza delle sue compagne all’uscita dal mar Rosso: due versetti solitamente dimenticati che provocano la riflessione sulla presenza delle donne nelle Scritture e sul loro oscuramento, sulla marginalizzazione voluta dagli uomini e sulla liberazione operata dalla mano potente di Dio, che le ha accompagnare nel loro “osare” anche nel campo del dialogo ecumenico.

La Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, istituita come Ottavario di preghiera per l’unità delle Chiese nel 1908 dal reverendo inglese Paul Watson, è oggi diffusa in tutto il mondo cristiano e celebrata nell’emisfero Nord dal 18 al 25 gennaio. Dal 1990, per iniziativa della CEI, in Italia la Settimana è preceduta il 17 gennaio dalla Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei: una collocazione che sottolinea la derivazione del cristianesimo dalla “santa radice” e l’importanza, per l’unità tra le “chiese sorelle”, delle Scritture ebraiche, alla cui fonte tutte si abbeverano.

Due versetti dimenticati

La liturgia del 2018, preparata dalle chiese cristiane dei Caraibi – anglicane, battiste, cattoliche, metodiste, morave, presbiteriane – ha come titolo “Potente è la tua mano, Signore”, sesto versetto del capitolo 15 di Esodo (Shemot) che contiene due inni cantati dagli israeliti dopo l’attraversamento del mar Rosso, nella prodigiosa notte di Pesach.

Il primo inno, più esteso, è attribuito a Mosè (cf. Es 15,1-18); il secondo, di appena due versetti (cf. Es 15,20-21), è riferito a Miriam, «la profetessa, sorella di Aronne». Nel Lezionario cattolico della grande Veglia Pasquale è presente solo l’inno cantato da Mosè e dal popolo, mentre manca il ritornello intonato da Miriam al suono di tamburello per le donne che l’accompagnano con le danze. Un’omissione non di poco conto, dal momento che il frammento in questione fa parte del memoriale più antico del passaggio del mar Rosso: un testo di tradizione jahvista, anteriore a quello di tradizione sacerdotale – quindi postesilico – riferito a Mosè.

Un’omissione, inoltre, che ancora una volta porta in luce il tema della trasmissione della memoria, sempre condizionata e selezionata da chi detiene il potere. Nelle società patriarcali a farne le spese sono state prevalentemente le donne: anche quando le scritture ebraiche e cristiane ne riconoscono almeno parzialmente la presenza e la voce, la teologia, la liturgia, la catechesi e il magistero hanno spesso smorzato le testimonianze della loro azione.

I canti delle donne bibliche

La Settimana per l’unità dei cristiani 2018, che invece ripropone la voce di Miriam, ci offre l’opportunità di fare alcune considerazioni, quasi pensieri al margine, a partire dal ricordo di un’annotazione di Maria Teresa Milano nel recente volume La voce è tutto, sulle differenze tra i due inni studiate da diversi commentatori. Una tra tutte: l’uso della forma verbale in prima persona nel caso di Mosè – «canterò» – e il «cantate» di Miriam. L’autrice rileva in questa seconda forma il ruolo di riferimento rivestito dalla profetessa, e cita uno studioso di Talmud che vede nei primi canti delle donne, tra cui quello di Debora, un’espressione di “guerra, battaglia e miracolo”. Perché spegnerlo? Forse fa paura? Perché?

Da qui sorge spontanea un’altra domanda, su altri canti. Ad esempio quello di un’altra Miriam, la ragazza di Nazaret, letto per secoli sottolineandone l’umiltà, in conformità con l’immagine remissiva attribuitale, e non come la proclamatrice in piedi di un inno di vittoria sulla potenza di Dio che rovescia i superbi e innalza gli umili. Il suo cantico durante i vespri – ricordo d’infanzia, forse tuttora persistente? – era intonato con l’accompagnamento del segno della croce, come a segnare una separazione dai canti precedenti, appartenenti all’Antico Testamento.

E invece, leggendo la Scrittura a ritroso, si trova il cantico di Anna, da cui quello di Miriam deriva; non per niente le due donne sono protagoniste di storie di maternità fuori dal comune: la prima, sterile; la seconda senza concorso di maschio. Le affinità tra i due testi ci riportano alla stretta parentela tra ebraismo e cristianesimo, sebbene ancora oggi ci sia chi sostiene che i due predichino ciascuno un proprio Dio: il Dio (e la Scrittura) della legge e il Dio (e la Scrittura) dell’amore.

Quelle che osano

Per tornare a Miriam di Nazaret, essa è l’ultima figura femminile di una genealogia che contiene altre quattro donne di confine (Tamar, Rahab, Rut, Betsabea) annoverate da Matteo come antenate di Gesù. Donne scomode, secondo la morale corrente, donne che hanno osato. Osare non spaventa le donne: in tanti secoli di assoggettamento, è stata un’esigenza. La Chiesa cattolica le ha spesso relegate in ruoli e spazi marginali. La mano potente di Dio rivestita di un guanto di ferro le ha colpite per secoli; liberata, ha fatto grandi cose in loro e per loro.

Anche oggi, anche nel dialogo tra le religioni, le donne mostrano coraggio e determinazione. Dove esistono muri eretti dal potere maschile e dalle consuetudini patriarcali, aprono una fessura. A Venezia nei tardi anni Quaranta del ’900 Maria Vingiani, una cristiana cattolica con la passione per l’unità della Chiesa ha osato frequentare gli “eretici”. Si era ancora in epoca di scomunica, e l’insegnante non si accontentava di farlo di nascosto: voleva un riconoscimento; lo chiese al patriarca Adeodato Giovanni Piazza e ottenne una benedizione.

Quelle relazioni furono il germe di un movimento fecondo che vent’anni dopo diventò un’associazione dedicata all’ecumenismo e al dialogo a partire dall’ebraismo: il Segretariato attività ecumeniche (SAE). Con socie e soci solo laici e senza assistente per mantenere un’autonomia dall’istituzione ecclesiastica. Vingiani, che si impegnò anche in politica nel Comune di Venezia, era cosciente del legame unico con il popolo dell’Alleanza e per questo aveva favorito l’incontro, frenato dalla curia, tra Giovanni XXIII e lo storico ebreo Jules Isaac: in quel giorno furono gettate le basi di un nuovo rapporto tra cristiani ed ebrei, che portò al paragrafo 4 della dichiarazione conciliare Nostra Aetate.

Altre due donne – Elena Milazzo Covini e Marianita Montresor, scomparsa prematuramente – hanno svolto il ruolo di presidenti del SAE, e in diverse città molte donne dirigono i gruppi locali o sono impegnate in essi. I gruppi femminili di diverse chiese in Italia, soprattutto protestanti, sono aperti al dialogo e collaborano tra loro: come il Forum ecumenico delle donne cristiane europee, che unisce cattoliche, protestanti e ortodosse, come il Coordinamento teologhe italiane, allargano i confini delle chiese. Senza paura di perdersi, con la gioia di unirsi.

La profetessa Miriam e le donne israelite all’uscita dal Mar Rosso (Es 15,20-21), 

Haggadah dorata (1340), Fol. 15, British Library, Londra.

 

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