Abusi nella Chiesa: le donne dallo scisma alla parola
Religiose e laiche non vogliono più tacere, né accettare un sistema che insabbia le denunce nella speranza “che passino”. Ci sono in gioco infinite vite e il futuro di una comunità ecclesiale che ha bisogno di laicità e rifondazione antropologica.
Quando, all’inizio degli anni ’80, la teologa statunitense Elisabeth Schüssler Fiorenza coniò l’espressione “Chiesa delle donne”, in tanti rispolverarono tutte le loro conoscenze ecclesiologiche per esprimere sdegno o resistenza di fronte a quella che veniva vissuta come una chiamata allo scisma. In realtà, uno scisma tra le donne e la Chiesa c’è stato, ma non a causa della “Chiesa delle donne”. Piuttosto, perché tante, troppe, donne di ogni età hanno silenziosamente preso le distanze da una comunità ecclesiale in cui sentivano che non c’era più posto per loro. Non ha fatto notizia perché, in una Chiesa radicalmente gerarchica e clericale, gli unici scismi che contano sono quelli tra classi dirigenti.
Altrettanto vero però è che, accanto a questo, si va profilando con sempre maggiore chiarezza una vera e propria “Chiesa delle donne”. Non come Chiesa separata né, tanto meno, alternativa, ma come espressione sempre più nitida e forte di una consapevolezza ecclesiale da parte di tante donne e, non ultime, tante suore e monache che non ne possono proprio più di tacere. Schiere di confessori e direttori spirituali hanno fatto credere alle sposate che la loro omertà nei confronti di mariti prepotenti salvava la santità del matrimonio e hanno imposto alle consacrate infinite forme di silenziosa complicità con un sistema non meno violento di un marito ubriaco. Stesso meccanismo, stessa operazione di convincimento che ha fatto delle donne, sposate e consacrate, l’architrave di un sistema patriarcale che, in buona fede o con dolo poco importa, per secoli è stato fatto coincidere con la Chiesa.
Il rapporto tra sessualità e potere
La recente dichiarazione dell’Unione internazionale superiore generali (UISG) è espressione forte e coraggiosa di questa “Chiesa delle donne” che, non in termini separatisti, ma con precisa consapevolezza della propria specificità, mette finalmente al cuore di questa consapevolezza il rapporto tra sessualità e potere, di cui troppo spesso suore e monache sono vittime. La volontà delle superiore generali che si arrivi a una trasparente denuncia degli abusi alle autorità civili e penali, sia all’interno delle congregazioni religiose sia nelle parrocchie o diocesi, o in qualsiasi spazio pubblico, ribalta totalmente la prospettiva, rispetto a quanto troppo spesso invocato e perseguito dalle autorità ecclesiastiche: se la parola passa finalmente alle donne, la laicità si impone. Ed è proprio questo il punto.
Papa Francesco lo ha denunciato: non si può affrontare la piaga degli abusi, e non solo di quelli sessuali, se non si affronta il problema del clericalismo che mina ormai alla radice la vita della Chiesa. Un teologo come Hervé Legrand ha magistralmente chiarito le ragioni storiche e canonistiche di una Chiesa clericale, cioè non ancora sinodale. Il tempo per prendere delle decisioni è ormai maturo, anche se sarà necessario pagare alcuni prezzi. Non saranno certamente così alti come quelli che tutto il corpo ecclesiale è costretto a pagare a causa degli abusi, e non solo sessuali, che quotidianamente minano la sua credibilità. È vero, ogni forma di sinodalità è avversata da tutti coloro che continuano a credere che la Chiesa non viva nella storia e, soprattutto, a sperare che la voce delle donne appartenga a una congiuntura sfavorevole che non può che passare.
Quale sinodalità senza le donne?
Lascia invece interdetti che, ancora una volta, la questione della violenza sessuale sulle donne, tutte, piccole o grandi che siano, suore o meno, venga esclusa dai temi in discussione nella prossima riunione dei presidenti delle Conferenze episcopali nazionali che si terrà in Vaticano (21-24 febbraio). Finché perdurerà la grande esclusione del laicato e, ancor di più delle donne, la Chiesa resterà sempre strutturalmente clericale. E finché non apprenderà la disciplina della laicità non uscirà dal circolo vizioso dell’autoreferenzialità clericale. Suore e monache, insieme a infinite cristiane che hanno scelto la consacrazione battesimale come identità vocazionale, avrebbero davvero tanto da dire. Anche da denunciare, certo, ma non soltanto.
Da questo punto di vista, l’ultimo inserto dell’Osservatore Romano “Donna Chiesa Mondo” (febbraio 2019) è esemplare. Non soltanto ricorda che fin dalla fine degli anni Novanta, alle prime coraggiose denunce – precise, circostanziate e accompagnate da inchieste approfondite e analisi dettagliate – da parte di suor Maura O’Donohue e suor Marie McDonald, ha fatto seguito solo un silenzio omertoso; ma propone di collocare il reato/peccato dell’abuso sessuale all’interno di una riflessione culturale e teologica di ben più ampio respiro. Gli abusi sono il sinistro segnale di una trasformazione del sentire che ha condannato la più delicata delle espressioni affettive legata al senso del “tatto”, la carezza, alla perdita dell’innocenza. E questa ferita inflitta al nostro modo di sentire non si risana soltanto attraverso le denunce e grazie all’indispensabile quanto serrata verifica della loro legittimità, ma attraverso una vera e propria rifondazione antropologica senza la quale qualsiasi istanza religiosa rischia la deriva.
Dal canto suo, poi, su questo stesso blog suor Mariachiara Piccinini mira al cuore quando afferma che «i problemi delle relazioni tra uomini e donne non sono solo nelle situazioni di violenza estrema: sono ampi, profondi, trasversali a ogni ambiente, cultura e religione». E dichiara di essere «stata costretta a scoprire che essere femminista ha un senso: dover lottare per essere riconosciute e rispettate nella propria alterità è questione assai viva e per niente lontana o passata».
Storia e cronache ecclesiali ci dicono che questa affermazione va ben oltre i confini di un’esperienza individuale e indica piuttosto un cammino per tutta la Chiesa. Finalmente davvero sinodale perché non tra omologhi, ma tra diversi.
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