25 novembre / 4 – Violenza di genere: quando se ne parla in classe
Un’insegnante racconta le reazioni dei ragazzi e quelle delle ragazze, la scoperta che la violenza è una prigione e che bisogna uscire dall’ombra, lo scavo nelle radici culturali e sociali e la necessità dell’educazione alle differenze.
Per diversi anni ho inserito nella programmazione didattica delle mie classi o di gruppi interclasse un percorso sul tema della violenza di genere, cogliendo l’occasione offerta dal premio “Colasanti-Lopez” promosso dalla Provincia di Parma e avvalendomi della preziosissima collaborazione di associazioni impegnate in questo ambito (Centro Antiviolenza, Centro Italiano Femminile, Maschile Plurale). Devo riconoscere che la consapevolezza e la sensibilità verso questa realtà sono cresciute in me grazie anche al percorso fatto insieme ai miei alunni e alunne e alle persone che ci hanno accompagnato.
Il mio punto di partenza è stato prima di tutto mettermi in ascolto delle domande, delle paure, delle attese di ragazzi e ragazze che spesso sono lasciati soli di fronte a questioni così importanti e vitali nel loro cammino per diventare donne e uomini capaci di costruire relazioni autentiche e profonde.
Per questo ritengo che sia dovere della scuola affrontare questo tema, perché le radici della violenza sulle donne sono di carattere culturale e sociale e noi dobbiamo credere e affermare che l’educazione – una giusta educazione alla differenza di genere – è la strada maestra per cercare di uscirne. Non siamo di fronte ad una questione “di donne”, ma ad una questione che riguarda donne e uomini, le loro relazioni, le loro emozioni.
La violenza è una prigione, anche per i maschi
Cosa succede quando ragazze e ragazzi parlano di violenza sulle donne? Dopo l’esperienza con diverse classi mi sento di dire che la prima reazione dei ragazzi è spesso quella di mettersi sulla difensiva; alcuni di loro apertamente esprimono un senso di disagio, si sentono “attaccati”, colpevolizzati. In questa situazione spesso cercano di spostare la questione sul fatto che «anche le ragazze ci trattano male, anche noi soffriamo nelle relazioni». Riuscire a spostare la questione su un livello più profondo, che va a indagare quegli stereotipi e quelle dinamiche sociali che imprigionano gli uomini (come le donne) è un passaggio fondamentale e non facile, per il quale è stata determinante la collaborazione con l’associazione Maschile Plurale, grazie alla quale i ragazzi hanno potuto incontrare uomini che non parlavano direttamente della violenza sulle donne, quanto piuttosto del percorso compiuto per liberarsi da quei “ruoli” maschili che spesso diventano prigioni da cui è difficile sfuggire.
Dopo aver ascoltato una volontaria del Centro antiviolenza e uno di Maschile Plurale, una mia classe ha riassunto il proprio percorso in uno slogan significativo: «La violenza è una prigione; per noi (donne), per noi (uomini): e se ne uscissimo insieme?». Ragazzi e ragazze hanno cioè colto la necessità di affrontare il problema della violenza insieme, in quanto la violenza è una prigione per entrambi. Le donne sono imprigionate dalla paura, dalla violenza fisica e psicologica che subiscono; gli uomini sono imprigionati “dentro”, non sanno diventare se stessi, sono prigionieri di ruoli, sono prigionieri del silenzio che impedisce loro di parlare di sé e di aprirsi a relazioni autentiche.
L’ombra che rende vittime le ragazze
Le reazioni delle ragazze sono state più varie, difficile individuarne una prevalente: c’è sicuramente consapevolezza (cresciuta nel corso degli anni) della gravità della situazione, c’è un senso di paura, di rabbia, di frustrazione, di impotenza. Vorrei soffermarmi però su una reazione che per me è indicativa di quei “ruoli” in cui ancora tante ragazze sono imprigionate: alcune riconoscono che il sentirsi potenziali vittime della violenza agita da ragazzi rafforza il bisogno di avere ragazzi “buoni” che le difendano, che le proteggano quali cavalieri “senza macchia” pronti a correre in loro difesa. È interessante riportare la risposta data da altre a questo tipo di atteggiamento: «Non ho certo bisogno di nessuno che mi difenda, non ho bisogno di stare sempre all’ombra di un ragazzo. Anche questa è violenza».
Proprio approfondendo la metafora dell’ombra un altro slogan che ha riassunto il percorso fatto è stato: «Non restare nell’ombra»: la violenza sulle donne nasconde la subordinazione della donna a modelli culturali che la rendono, molte volte inconsapevolmente, vittima e oggetto dei desideri maschili, senza che essa possa arrivare a maturare e a esprimere i propri desideri. Per questo è importante uscire dall’ombra, cioè denunciare le violenze subite, ma ancora più uscire dalla subordinazione ad un modello sociale che priva le donne della loro dignità, della loro autonomia.
Qualcosa si muove, ma c’è molto da fare
Che cosa è cambiato in questi anni nella percezione che le ragazze e i ragazzi hanno della violenza di genere? Anche se il mio è un osservatorio limitato (una scuola liceale con una alta percentuale di ragazze) mi sembra di poter dire che il livello di informazione si sia gradualmente alzato. Se i primi anni alla violenza di genere veniva associata quasi esclusivamente la violenza sessuale, negli ultimi anni alla domanda «cosa pensi quando senti parlare di violenza sulle donne» sempre più ragazzi e ragazze rispondono «ogni forma di violenza fisica» e qualcuno anche «violenza psicologica». Riguardo ai luoghi della violenza, sempre più ragazzi e ragazze parlano dell’ambiente domestico e non più solo di spazi isolati e nascosti. Così come non è più solo l’estraneo “il nemico” da cui fuggire, ma si è sempre più consapevoli che la violenza sulle donne è agita anche dal coniuge, dal fidanzato, dall’amico.
Forse le campagne di informazione su questo tema stanno funzionando, e sicuramente sapere che cosa è la violenza e chi la compie è il primo passo per riconoscerla e denunciarla. Ma non possiamo fermarci alla sola informazione, sempre necessaria; non lo può fare la scuola e non lo può fare la società nel suo complesso. Rimane ancora difficile per molti di loro – e per molti di noi – riconoscere le radici della violenza e capire quali stereotipi imprigionano uomini e donne in ruoli che impediscono il crearsi di relazioni autentiche e rispettose della specifica differenza. Per questo occorre che tanto la scuola quanto gli altri contesti in cui ragazzi e ragazze compiono insieme un percorso formativo (compresi quelli ecclesiali) si impegnino per promuovere esperienze di reale riconoscimento e valorizzazione delle differenze.