25 novembre /2 – Il dominio maschile in pensieri, parole, opere… e forme di Chiesa
Dire uomo per dire anche donna, pensare il maschile come universale, usare retorica e paternalismo invece che rinnovare la Chiesa alla luce del discepolato di eguali: non è già violenza, questa?
Di violenza ce n’è di tutti i generi: conclamata e nascosta, fisica e verbale, improvvisa e a lenta combustione, cieca e programmata, esibita e subliminale, rozza e raffinata, individuale e collettiva … Ma sembra esserci un genere, che vi si esercita con disperante consuetudine: quello maschile.
Per questo ogni volta che arriva la Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne mi sento a disagio. Come maschio, anzitutto, per la permanente difficoltà a riconoscere la mia parzialità entro un orizzonte culturale che continua a fare del maschile il genere universale, comprensivo di ogni altro. Non è già violenza, questa?
I linguaggi che nascondono le donne
Il tentativo che faccio di declinare il più possibile al femminile e al maschile i miei discorsi viene bonariamente preso in giro da chi mi conosce, e non credo con questo di dare chissà quale contributo alla causa. Tuttavia mi chiedo se il linguaggio – in tutte le sue forme, non solo quelle verbali – non sia una matrice fondamentale della nostra visione del mondo.
Come lavorare allora, tutte e tutti insieme, per una radicale bonifica dei linguaggi a tutti i livelli e in ogni ambito? È responsabilità di chi ha ruoli significativi, ma è vigilanza da parte di ciascuno. È impegno educativo, con risvolti sociali e politici non indifferenti. È attitudine personale da coltivare e affinare e insieme sforzo collettivo da mettere in atto.
Parlare (e di conseguenza pensare) unicamente al maschile e ritenere che sia una modalità di includere tutto e tutti significa confermare un atteggiamento di dominio, che anche quando non sfocia in forme di violenza fatta e subita, alimenta una relazionalità nella quale si è sempre a rischio di assolutizzare se stessi.
Il “principio di maschilità” nella Chiesa
Il disagio, se possibile, aumenta per il mio essere prete cattolico e quindi a titolo particolare espressione della Chiesa nel suo aspetto istituzionale. E la Chiesa cattolica, strutturata su un principio di maschilità esibito come volere divino, non può chiamarsi fuori dall’orizzonte culturale sopra delineato.
Al di là degli stereotipi di genere più grossolani – tutt’altro che estirpati, se di recente il vicario generale di una diocesi può permettersi di commentare un passo delle Scritture a un’assemblea di universitari ribadendo la sottomissione delle mogli ai mariti – c’è un armamentario di discorsi ecclesiastici dal retorico al paternalistico francamente imbarazzanti.
Il ricorso a Maria, il riferimento al genio femminile, l’inserimento di qualche sporadica donna in organismi ecclesiali, possono fare da alibi a un mancato ripensamento del volto che la Chiesa cattolica esprime, continuando a mutilare l’apporto delle donne e quindi in certo modo legittimando una forma di violenza nei loro confronti?
Non è questione di tutela, ma di Vangelo
E la violenza contro un genere è violenza contro il genere umano, per cui non si tratta di tutelare le donne come si tutelasse una specie protetta. È in questione l’umanità nel suo insieme e, per quanto si riferisce alla Chiesa, il Vangelo di Gesù di Nazareth che per l’umano è buona notizia di salvezza.
Il discepolato di eguali testimoniato dalla sequela evangelica non può non interrogare la forma di Chiesa di ogni tempo e affrettare una riforma che, a fronte della tragedia della violenza contro le donne, possa porre un segno forte in altra direzione.