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Moralia Blog

Who? When? What? | La vicenda di Charlie Gard

La storia del piccolo Charlie Gard, un bambino britannico di 10 mesi affetto dalla sindrome da deplezione del DNA mitocondriale, sta animando il dibattito pubblico mondiale. Si tratta di una malattia genetica rarissima (solo 16 casi al mondo) che rientra in un gruppo di patologie genetiche causate da mutazioni in geni nucleari coinvolti nel mantenimento del DNA dei mitocondri. Questi sono degli organi che forniscono alle cellule l’energia necessaria per il loro funzionamento. In caso di perdita del materiale genetico dei mitocondri, il nostro organismo non produce energia e gli organi cominciano progressivamente a deperire.

I medici del Great Ormond Street Hospital di Londra, che hanno in cura il piccolo Charlie, hanno tentato diverse terapie, senza ottenere alcun miglioramento. Il piccolo è, pertanto, mantenuto in vita mediante un respiratore e un sondino nasogastrico e, secondo i medici, continuare su questa strada costituirebbe non solo un’ulteriore sofferenza per il bambino, ma anche un inutile dispendio economico. Per tale ragione gli amministratori dell’ospedale hanno chiesto al tribunale di poter staccare le macchine che tengono in vita il bambino, accompagnando l’ultimo tratto della sua esistenza con la sedazione palliativa.

A tale decisione, i genitori di Charlie si sono opposti con veemenza, utilizzando tutti i mezzi in loro potere, sia da un punto di vista legale che economico. Hanno, infatti, fatto ricorso a tutti e tre i gradi della giustizia inglese e hanno raccolto 1,4 milioni di sterline per portare il bambino negli USA dove un medico aveva loro assicurato di poterlo curare con terapie sperimentali. La giustizia inglese e la Corte europea dei diritti dell’uomo hanno, tuttavia, dato ragione ai medici.

Tre punti di riflessione

Personalmente, senza voler alimentare inutili polemiche, credo che tale vicenda solleciti la riflessione bioetica almeno su tre punti: 1) Who? Chi decide la sospensione dei mezzi di sostegno vitale? 2) When? Quando sospenderli? 3) What? Cosa fare quando le terapie non assicurano nessuna speranza di guarigione?

Who?

In casi drammatici come quello di Charlie, in cui il parere dei medici e quello dei genitori è in netto contrasto, a chi spetta decidere? Penso che, nel caso specifico, le questioni siano due e si intreccino tra loro. Ferma restando la liceità «in mancanza di altri rimedi, [di] ricorrere, con il consenso dell’ammalato, ai mezzi messi a disposizione dalla medicina più avanzata, anche se sono ancora allo stadio sperimentale e non sono esenti da qualche rischio» (Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’eutanasia, n. 4), non si può non tener conto che un consistente numero di medici e tre gradi della giustizia britannica hanno ritenuto che proseguire con le terapie di sostegno vitale o tentare ulteriori terapie sperimentali costituirebbe una forma di accanimento terapeutico e interrompere procedure mediche onerose o pericolose, straordinarie o sproporzionate, non solo è legittimo, ma anche doveroso.

When?

Quando è lecito sospendere le terapie? Al di là della tradizionale distinzione tra mezzi proporzionati e mezzi sproporzionati, sembra utile richiamare a tale proposito gli studi di Richard McCormick sul potenziale relazionale nelle decisioni riguardanti gli interventi di mantenimento o sostegno vitale su neonati con gravi malformazioni. Per il gesuita statunitense non esistono vite degne e vite non degne di essere vissute, poiché ogni essere umano è di incalcolabile valore. Ciò che è in gioco, pertanto, non è il valore, ma se questo indubbio valore ha o no potenzialità nel realizzare la propria sopravvivenza fisica per partecipare al più alto e importante dei beni: l’amore a Dio e l’amore al prossimo. Se un neonato non ha un potenziale che gli permetta di realizzare queste relazioni, allora ogni sforzo per mantenerlo in vita non è più né obbligatorio né costituisce il best-interest del bambino.

What?

Qualora si dovesse ritenere che gli interventi su Charlie costituiscono solo una grave forma di accanimento e che il povero bambino britannico non ha più un potenziale nel realizzare delle relazioni significative, quale sarebbe il compito della medicina? Un malato inguaribile è, di conseguenza, incurabile? Se la medicina ha fallito nel debellare la patologia di Charlie, non può e non deve fallire nell’assicurare tutte le possibilità per consentire al piccolo di concludere la sua esistenza terrena in modo dignitoso. Occorre assicurare a Charlie (come del resto già sta avvenendo) di poter godere dell’affetto dei suoi genitori, di ritornare (se possibile) nel suo ambiente domestico, di usufruire della preghiera e della vicinanza della comunità cristiana e di morire senza ulteriori sofferenze.

 

Commenti

  • 17/07/2017 r.dambrosio@unigre.it

    Condivido appieno le tesi dell'autore e mi complimento anche perché espresse con competenza, equilibrio e pacatezza. Tutte virtù rare in un momento storico in cui spesso la verità diventa una clava per colpire e la fede un'ideologia da sbandierare. Un cordiale saluto. God bless you Rocco D'Ambrosia, ordinario di filosofia politica, Gregoriana, Roma

  • 17/07/2017 pgcattani@gmail.com

    Complimenti all'articolo. Personalmente ho le stesse idee dell'autore. Grazie

  • 13/07/2017 marconeri.firenze@tin.it

    Riesco difficile pensare che un genitore, in piene facoltà mentali, non possa decidere del proprio figlio, in particolare della sua vita. I medici inglesi ritengono di aver fatto il massimo, che oltre a loro non vi sia altro scienziato che possa fare meglio (paradosso dell'ego, che supera la vita). Oppure gli stessi medici hanno paura che altri medici possano smentirli o scoprire qualche loro malefatta nella cura del piccolo Charlie. Nessuno può decidere della vita altrui, men che meno un medico. I genitori hanno una piccola speranza nelle cure sperimentali ed è giusto che possano percorrere questa strada. Anche se questa porterà, dopo un po' di tempo, alla morte del piccolo Charlie, la sua morte servirà ad aiutare altri piccoli che hanno questa rara malattia; per i medici a migliorare le cure. Così Charlie non ha avrà percorso questa strada invano, ma sarà servita ad altri; e i suoi genitori potranno vedere Charlie i tanti altri bambini che grazie a lui potranno vivere meglio e più a lungo.

  • 12/07/2017 angelopizzetti@hotmail.it

    Ringrazio della risposta. Quando dico delle ragioni di dissenso sulla sua posizione non intendo mettere a tacere la discussione, ma alimentarla. Altrimenti che significa discutere? Sul primo punto non c'è niente di meno banale del diritto naturale. Con questo non intendo mettere a tacere la discussione, ma riportarla ai riferimenti essenziali. Nel suo articolo alla domanda chi? Pareva che la sua risposta fosse che chi ha diritto di decidere siano i medici o altri. I genitori invece hanno il primato e questo per diritto naturale. So anche io che ci sono eccezioni, ma questi genitori non mi sembrano incapaci nè moralmente nè psicologicamente. Quindi non rientrano nelle eccezioni.

    Sul secondo punto continuo a dissentire con la teoria che lei cita perché mi pare proprio metta a rischio l'assolutezza del valore della persona, con la scusa che ha sì valore assoluto, ma tanto non avrebbe la possibilità di realizzare le sue potenzialità. Così con questa scusa si bypassa il valore assoluto che a questo punto non è più tale. La trovo una teoria molto pericolosa. Chi poi deciderà quando uno ha o no le potenzialità ovviamente è il potere del momento.

    Sul terzo punto apprendo da lei queste differenze rispetto al caso di Avvenire che le riportavo e ciò che dice è ragionevole. Ho letto anche un articolo di Roberto Colombo su avvenire del 30 giugno a titolo: il paradosso del caso Gard. Come scienziato e sacerdote mi pare autorevole sul caso, e non mi pare sia del suo parere che la medicina non possa più nulla.

    Risponde l'autore

    Ringrazio nuovamente per la risposta e tento di controbattere per mantenere viva la discussione:

    1. Rispetto alla priorità dei genitori nelle scelte che riguardano i figli richiamo un parere del Comitato nazionale per la bioetica, il quale ritiene che «non si debba rianimare un neonato estremamente prematuro, quando questa pratica assuma l’obiettivo carattere di accanimento terapeutico, anche se il prolungamento degli interventi curativi venisse perentoriamente richiesto dall’ansia e dall’affetto dei genitori» (CNB, I grandi prematuri. Note bioetiche del 29.02.2008).
    2. Per la tradizione morale cattolica la vita fisica non è un valore assoluto. E questo non lo dico io, ma lo afferma lo stesso Giovanni Paolo II: «Certo, la vita del corpo nella sua condizione terrena non è un assoluto per il credente, tanto che gli può essere richiesto di abbandonarla per un bene superiore; come dice Gesù, "chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà" (Mc 8,35). Diverse sono, a questo proposito, le testimonianze del Nuovo Testamento. Gesù non esita a sacrificare sé stesso e, liberamente, fa della sua vita un'offerta al Padre (cf. Gv 10,17) e ai suoi (cf. Gv 10,15). Anche la morte di Giovanni il Battista, precursore del Salvatore, attesta che l'esistenza terrena non è il bene assoluto: è più importante la fedeltà alla parola del Signore anche se essa può mettere in gioco la vita (cf. Mc 6,17-29). E Stefano, mentre viene privato della vita nel tempo, perché testimone fedele della risurrezione del Signore, segue le orme del Maestro e va incontro ai suoi lapidatori con le parole del perdono (cf. At 7,59-60), aprendo la strada all'innumerevole schiera di martiri, venerati dalla Chiesa fin dall’inizio» (GIOVANNI PAOLO II, lettera enciclica Evangelium vitae, n. 47).
    3. Ribadisco quanto ho già scritto in merito alle terapie sperimentali, auspicando che davvero la medicina possa trovare la strada giusta per assicurare il meglio al piccolo Charlie.
  • 10/07/2017 giuqua@gmail.com

    Complimenti all'autore del post e delle risposte per la chiarezza e l'equilibrio degli argomenti.

  • 06/07/2017 angelopizzetti@hotmail.it

    Per me le tre domande sono giuste, ma le risposte sono sbagliate. 1. Chi? Chi ha il diritto di staccare la spina? Il diritto naturale non ha dubbi in proposito: i genitori. Al massimo l'ospedale può rinunciare per motivi economici e rimandare il paziente, così lo stato. Ma il diritto di decidere è dei genitori. 2. Quando? Il valore della persona non è relativo alla sua capacità di tessere relazioni con Dio e col prossimo, ma è assoluto, per ciò che è, amata da Dio, oggettivamente, prima di ogni capacità soggettiva. L'interpretazione del tal gesuita è assai pericolosa perché riduce il valore della persona a sue potenzialità, dunque ne nega l'assolutezza e l'oggettività. 3. Che cosa fare? Innanzitutto la medicina non ha ancora fallito, visto che ci sono prospettive di cura altrove. A meno che la medicina inglese non pretenda di essere tutta la medicina. In secondo luogo sarebbe certo un intervento sproporzionato se i genitori non potessero permetterselo. Ma visto che hanno raccolto fondi appositamente per questo, è ideologico e violento non permetterglielo. La violenza non sono appena le guerre. Sul sull'Avvenire di martedì 4 luglio pag.4 c'era la storia di un caso simile curato dal medico a cui hanno fatto ricorso anche questi genitori. Per cui dissento su tutti i fronti.

    Risponde l'autore

    Ringrazio per le osservazioni e per il "dissenso". Il mio post non aveva la pretesa di essere esaustivo né di esporre acriticamente dei "dogmi morali" intangibili, ma solo di tirar fuori la discussione sul caso del piccolo Charlie dalle strettoie dell'emotivismo alla riflessione etica. Provo, pertanto, a specificare la mia posizione, partendo dalle obiezioni poste nell'intervento di Pizzetti.

    1) Mettere a tacere la discussione rifacendosi al diritto naturale credo possa indebolire e banalizzare il discorso etico. Senza entrare nel merito, penso che siano facilmente richiamabili esempi di genitori che, per mancanza di conoscenza o incapacità morale o psichica, non siano adatti a prendere delle scelte per i propri figli. Nel caso specifico la soluzione migliore sarebbe stata sicuramente quella di una sintonia tra personale medico e genitori, frutto di un'alleanza terapeutica che è sempre auspicabile in situazioni simili a quella del piccolo Charlie. Ma quando c'è dissenso, siamo sicuri che il parere dei genitori sia assolutamente vincolante? È possibile che le competenze dei medici siano irrilevanti e che il loro ruolo debba essere semplicemente quello di applicare le scelte dei genitori, anche quando esse vadano contro la loro scienza e coscienza personale? Difendere la vita fisica a ogni costo è sempre un bene per il malato? Nel caso specifico non ci sono i presupposti per parlare di eutanasia, ma il desiderio di astenersi da ulteriori terapie che potrebbero risultare altamente dannose e provocare ulteriori sofferenze. Lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica ricorda che «l’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’“accanimento terapeutico”. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire» (CCC 2278).

    2) Richiamare la teoria di R. McCormick non intende ridurre la persona alle sue relazioni, ma solo invitare a pensare che, oltre alle tradizionali categorie di proporzionalità, quella del potenziale relazionale non può essere trascurata. Non è l'unica, ma non può nemmeno essere totalmente bypassata!

    3) Pur riconoscendo di non avere le competenze mediche adatte a valutare l'efficacia della terapia statunitense, mi limito a dire due cose: a) la sperimentazione è ancora allo stato primordiale e, in ogni caso, si tratterebbe di sottoporre a tale sperimentazione un  bambino di 10 mesi la cui patologia genetica è già in stato avanzato; b) il caso riportato da Avvenire non è totalmente paragonabile al caso del piccolo Charlie. Arthur Estopinan, infatti, è stato ammesso alla sperimentazione quando i suoi organi non erano stati totalmente compromessi dalla patologia. Ne è prova il fatto che i medici del Great Ormond Street Hospital, in gennaio, avevano dato il consenso alla sperimentazione su Charlie. Tale consenso è stato ritirato quando ulteriori complicazioni hanno gravemente e irreversibilmente danneggiato l'encefalo. Il fatto poi che i genitori abbiano i mezzi economici necessari per permettersi la terapia negli USA ci fa porre la questione del rapporto costi/benefici che, a mio avviso, allo stato attuale, sembra ampiamente sproporzionato.

    Rispetto alla domanda della sig.ra Santucci, credo che il mantenimento del bambino in ospedale sia legato al fatto che, se Charlie fosse staccato dai macchinari che lo tengono in vita, morirebbe in poco tempo e in modo non dignitoso. Il permanere in ospedale, anche qualora si procedesse con la sospensione delle terapie, permetterebbe di somministrare una sedazione palliativa adeguata evitando ogni ulteriore sofferenza al piccolo Gard.

  • 05/07/2017 fiorella.santucci@alice.it

    Quello che non capisco è perché non si permette ai genitori di riportare il bambino a casa! OK per evitare l' accanimento terapeutico, se di questo si tratta, ma trattenerlo per forza in ospedale, perché? Sembra un sequestro di persona!

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