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Moralia Blog

Se i riti pasquali sono sganciati dalla celebrazione liturgica

L’emergenza sanitaria da epidemia di coronavirus travolge, è il caso di dire, anche le religioni (sul sito www.diresom.net si può trovare un’ampia rassegna di documenti e di brevi commenti su diritto, religione e Covid-19). E non fa sconti neanche alla Chiesa cattolica, alle prese con l’affrontare una situazione inedita per tutti.

Le sospensioni delle celebrazioni eucaristiche, di altri riti liturgici e di attività pastorali con partecipazione (fisica) di popolo, in diverse parti del mondo, trascinano con sé problemi teologici e canonistici non indifferenti. Come ha scritto il teologo Francesco Cosentino, tutto ciò sta «scoperchiando il vaso di pandora di una spiritualità cristiana e di una diffusa visione ecclesiologica, che meritano di essere affrontate forse ora più che mai».

È come se la liturgia cristiana avesse perso la sua potenzialità originaria di liturgia domestica. Come se non fossero i sacramenti per la vita, ma la vita per i sacramenti. Come se non fosse il sabato per l’uomo, ma l’uomo per il sabato.

Un'ecclesiologia costruita sul popolo di Dio

La fatica della Chiesa cattolica di mettere in campo una nuova ecclesiologia, in definitiva costruita sul popolo di Dio come soggetto ecclesiale, la rintracciamo anche nel nuovo decreto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, firmato dal cardinale Sarah (lo si può leggere qui), il 19 marzo.

L’oggetto è tra più urgenti: le celebrazioni riguardanti la santa Pasqua. E le indicazioni che vengono offerte sono essenzialmente (stiamo sintetizzando) quattro: a) la celebrazione della Pasqua non può essere rinviata; b) i riti del triduo pasquale devono essere celebrati dai vescovi e dai sacerdoti, anche senza la presenza fisica dei fedeli (che possono unirsi spiritualmente a queste celebrazioni, pure attraverso nuovi mezzi di comunicazione), omettendo alcuni segni, come lavanda dei piedi il Giovedì santo o l’accensione del fuoco nella Veglia pasquale; c) la messa crismale può essere rinviata; d) le manifestazioni della pietà popolare possono essere trasferiti in altri giorni (si consiglia il 14 o il 15 settembre).

Il decreto offre «indicazioni e suggerimenti» ai vescovi, ma sulla data di Pasqua è perentorio: siccome si tratta del «cuore dell’anno liturgico», questa festività «non può essere trasferita» sul calendario. Premesso che, in effetti, non ci sarebbe necessità di trasferire la data di Pasqua: anche la possibilità di celebrare la solennità pasquale in una dimensione liturgica domestica può rappresentare un’occasione di crescita spirituale per il popolo di Dio.

Ma è la perentorietà della disposizione a non convincere. Scandire l’anno liturgico significa vivere il mistero di Cristo nel tempo della Chiesa. Ma l’accezione liturgica di temporalità non è storica, bensì escatologia. Non è un mistero che si rinnova di volta in volta. È la fede della Chiesa, la fede dell’uomo in questo mistero che di volta in volta viene confermata.

Se quindi anche una comunità cristiana, con il proprio vescovo, preferisse rinviare la Pasqua, non perché a casa non può essere celebrata, ma più semplicemente per valorizzare questa solennità con la presenza (fisica) dei fedeli, in una dimensione visibile della comunità dei credenti, non ci sarebbe alcun problema, tantomeno teologico: il rinvio della Pasqua è biblicamente fondato sulle Scritture (si veda, ad esempio, 2Cr 30,2-5 e Nm 9,10-12). Ciò avendo sempre ben in mente che ogni domenica è comunque Pasqua del Signore!

E sorprende che senza rinviare la Pasqua si dia, però, l’opportunità di rimandare i riti della pietà popolare, come le processioni. I riti della pietà popolare vengono, in tal modo, sganciati dalla celebrazione liturgica, quando al contrario la celebrazione liturgica si è alimentata nei secoli, e continua ad alimentarsi, della pietà popolare: e di ciò le tradizioni della settimana santa ne offrono una conferma plastica.

Può esistere una pietà popolare, intesa come espressione vera del popolo, senza liturgia? Probabilmente no, almeno senza tradire il fondamentale principio dell’inculturazione del Vangelo che esprime, in maniera chiara e inequivocabile, la verità sull’incarnazione di Dio nell’uomo.

Senza celebrazione liturgica le espressioni delle pietà popolari rischiano di essere ridotte, quando va bene, a manifestazioni dal valore artistico, storico o folcloristico, anche importante, ma che non incidono nella vita spirituale e sacramentale della comunità di fede.

E si nega così tutto il percorso teologico che la Chiesa cattolica ha compiuto, dal concilio Vaticano II in avanti, sulla tema della religiosità popolare. Insomma: quanto ci sta costando caro, come Chiesa, questa difficoltà a rispondere all’emergenza sanitaria da coronavirus con la libertà che il Vangelo ci chiede?

 

Luigi Mariano Guzzo, canonista, collabora con la cattedra di Diritto ecclesiastico e diritto canonico, e insegna Beni ecclesiastici e beni culturali presso l’Università Magna Grecia di Catanzaro.

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