Pastorale fa rima con digitale?
L’intuizione di fondo non è mia, ma di Luciano Floridi nel suo recente Pensare l’infosfera e la propongo perché, mutatis mutandis, ci può fare del bene.
Egli rammenta come l’utilizzo del PC genera un decadimento progressivo delle prestazioni, sino al punto in cui si rende necessario riavviarlo. Così facendo, la memoria a breve termine viene cancellata, i diversi bachi eliminati e il sistema viaggia sereno siano al successivo necessario riavvio.
Floridi applica alla filosofia l’analogia di rallentamento, ma le stesse considerazioni possono valere per la teologia. Il rischio di impantanarci in minuzie tecniche e circoli minori è di ogni scienza, dunque anche di quella teologica. Possiamo pensare che la pandemia ci abbia dato una buona scossa per riavviare anche la teologia?
Le questioni sul tappeto sono già moltissime e in questo spazio in molti hanno condiviso un pensiero attento su molti temi. Abbiamo bisogno di ripensare la pastorale nel suo complesso tenendo presente i nuovi strumenti che dovremmo usare e le nuove posture sociali che ci sono imposte, con uno sguardo trasversale, dalla fondamentale passando per liturgica, sacramentaria, morale sino alla teologia pastorale che è e sarà in affanno.
Sarà un tempo inizialmente apofatico: proviamo a dire quel che forse è bene che non sia, per poter disegnare così un orizzonte credibile. Partendo dal presupposto che la pastorale di domani non possa essere una rivincita sulla pastorale di ieri, usando la pandemia come monito divino che ci aiuta a una qualche conversione.
Regaliamoci un discernimento sui segni dei tempi con una riflessione condivisa e dialogante e non una rivendicazione per sostenere ragioni sino a ora inascoltate.
Abbiamo bisogno di una agenda digitale ecclesiale governata da una visione teologica all’altezza. Quanti libri abbiamo scritto su sinodalità e comunione: ora che COVID-19 ci tiene distanti, è tempo di unire quei puntini per tracciare una rotta che ci riporti vicini.
Strumenti per la pastorale digitale: cose nuove e cose antiche…
Come è stato notato in ambiente laico, non mettiamo in moto una macchina eziologica millenarista, piuttosto chiediamo allo Spirito di conservare nova et vetera.
Venendo al proprio dei temi che qui condivido con i lettori, mi pare evidente che la quarantena ci ha abituato a un uso massivo delle tecnologie digitali con cui, di fatto, abbiamo trasferito la pastorale on-line. La necessità non ha aguzzato più di tanto l’ingegno, tant’è che spesso si è semplicemente ripreso e trasmesso quello che eravamo abituati a fare in presenza. Sarà necessario ripensare queste modalità, affinarne alcune, abbandonarle altre.
Non dobbiamo pensare che il confinamento che perdurerà in modalità ancora da definire possa essere continuativamente risolto così. Gli strumenti di telepresenza e di collaborazione virtuale non possono semplicemente sostituire la prossimità e la socialità senza conseguenze durature, anche se danno l’impressione di essere buoni compromessi senza bisogno di particolari adattamenti.
Dunque una pastorale nel digitale, con il digitale o per il digitale? Vi è circolarità in queste modalità, ma il punto di innesto che si sceglie fa una grande differenza. Pastorale nel digitale significa abitare un ambiente portandovi un annuncio e una postura.
Pastorale per il digitale è criticare o sostenere una tecnologia rispetto ai principi della dottrina sociale e della morale – come nel caso delle tecnologie cyborg o di AI.
Pastorale con il digitale invece significa usare della tecnologia per assolvere al mandato che ci è dato. Quest’ultimo aspetto è l’urgenza della stagione che viviamo, ma dobbiamo tenere presente nella riflessione la circolarità di cui facevo cenno per non scegliere soluzioni ingenue e controproducenti.
Con delle attenzioni fondate. Non possiamo immaginare ad esempio che la Chiesa diventi un’agenzia di consulenza e i nostri formatori, catechiste, educatori, preti un servizio di assistenza in remoto. Tanto più che il digitale usato in questa modalità genera una richiesta di attenzione maggiore e una corrispondente richiesta di disponibilità continua.
Chi ha fatto esperienza di smart working rileva che non ha lavorato di meno e meglio, ma di più e spesso peggio. Lo schermo annulla l’orario e aumenta le pretese. Il digitale chiede di essere performanti, perché è una macchina. Quali risvolti sulla pastorale che dovrebbe puntare ai frutti e non ai risultati?
Luca Peyron è presbitero della diocesi di Torino, coordinatore del Servizio per l’apostolato digitale, docente di teologia all’Università cattolica di Milano e di Spiritualità dell’innovazione all’Università di Torino. Ha scritto Incarnazione digitale (Elledici, Leumann 2019).