Material Design: tu chiamale, se vuoi, sensazioni
Febbraio è il mese in cui possiamo riflettere sull’amore e sulla cura, ricordando le apparizioni di Lourdes o – per essere più pop – il San Valentino di metà mese.
L’amore che ci ha raggiunti e l’amore che si spinge, l’amore che cerchiamo, l’amore che custodiamo nasce da relazioni e fisicità. L’amore è fatto di carezze, di sensazioni che nascono dalla nostra pelle, dall’incontro degli sguardi, nel nostro nome pronunciato con amore che fa riconoscere a Maddalena il Cristo risorto nel giardino.
Il mondo delle macchine lavora anche su questi aspetti, sulla nostra fisicità, per rendere l’interazione uomo-macchina la meno innaturale possibile o, se preferite, la più naturale possibile.
In questo senso si muove un progetto curioso, Material Design, che è un sistema di progettazione, supportato da codice open source – dunque liberamente implementabile – che aiuta i team a creare esperienze digitali di alta qualità.
Tra i progetti vi è quello di riprodurre nell’uso di app le sensazioni tattili della carta, la creazione di pulsanti e leve che riproducano la sensazione della stratificazione, della prospettiva e così via rispetto alle naturali responsività di interazione che abbiamo con gli oggetti.
L’obiettivo è quello di rimuovere il più possibile la sensazione di artificiosità, e dunque venire specialmente incontro alle abitudini degli utenti non nativi digitali, effetto importante in un periodo di transizione generazionale in cui proprio la sensazione di artificiale tiene lontano una fetta degli utenti, COVID o non COVID.
Quella che è a tutti gli effetti un’idea brillante, fondamentalmente di marketing, nasconde però un principio di fondo: ingannare nel miglior modo possibile, manipolare la consapevolezza, in fondo vendere – anche se solo a livello emotivo – aliud pro alio.
La persona ridotta a utente-consumatore
La questione che qui maggiormente ci interessa è però algoretica: qualunque sia lo strumento usato è prioritario che l’utente sia consapevole di interagire con una macchina, sempre. Tutto ciò che umanizza le macchine, nel senso di aiutare un’interazione più fluida, è elemento in sé positivo, a patto che l’obiettivo non sia mai quello di far dimenticare che l’oggetto con cui si interagisce non è un semplice oggetto.
Nessuno avrà mai modo di temere l’oggetto libro, anche se forse alcuni continuano a pensare giustamente che quello che è scritto nei libri debba essere temuto. Se l’oggetto non è propriamente un libro, ma un apparato digitale che ne svolge alcune funzioni, e altre con esse, chi lo usa deve continuare a percepire la differenza in qualche modo. Per fare un esempio banale, un libro cartaceo non può profilare i tuoi tempi di lettura, il tuo indugiare su alcune pagine, il sottolineare i passaggi, le note ecc. Un libro di carta si legge, non ti legge. Un libro digitale connesso alla rete può, invece fare tutto questo e molto altro.
Qui si gioca la partita etica e morale sull’uso e il potenziale abuso delle risorse che la trasformazione digitale ci offre, una trasformazione come sappiamo per sostituzione. In gioco c’è la stessa dignità dell’essere umano che si manifesta nell’esercizio libero delle scelte e nella possibilità che esse siano finalizzate. La persona ridotta a utente è un’ulteriore degradazione del già degradato status di consumatore.
Laddove l’essere umano nasce per esercitare le sue facoltà anche spirituali, che gli permettono di andare oltre la semplice realtà così come essa si palesa oggi, l’umano è attuatore e qualche volta cavia di processi decisi altrove. Ho diritto di leggere parole d’amore e di associarle a chi desidero senza che alcuno abbia il potere nascosto di spiarmi dalle serrature digitali che neppure immagino possano esistere.
Luca Peyron è presbitero della diocesi di Torino; insegna Teologia all’Università cattolica di Milano e Spiritualità delle tecnologie emergenti all’Università di Torino. È autore di Incarnazione digitale, Elledici, Torino 2019.