Essere condannati a morte via Zoom
Punithan Genasan ha 37 anni ed è stato condannato – pur dichiaratosi innocente – per aver coordinato due corrieri nella vendita di 28 grammi di eroina. Il suo guaio è di averlo fatto a Singapore, dove vige la pena di morte per qualunque reato connesso alla droga.
La posizione della Chiesa su tale pena è nota, il fatto che ne trattiamo in questo blog è legato alle modalità con cui la sentenza è stata delibata: via Zoom, la piattaforma di videoconferenza salita alla ribalta durante la pandemia. La città stato del Sudest asiatico è in quarantena da aprile ed è stato consentito l’utilizzo di Zoom per portare avanti i processi più importanti, seguendo così a un’incollatura il triste primato segnato dalla Nigeria, che per prima ha comminato la morte per via digitale.
Uno strumento che dematerializza la presenza delle persone le une accanto alle altre diventa artefice del più fisico e materiale degli accadimenti umani, la morte. La preoccupazione dei giudici si è limitata alla certezza della connessione, la freddezza dell’occhio digitale ha sostituito qualunque relazione empatica o antipatica in una questione letteralmente capitale. L’ironia del dover preservare vite dal rischio del contagio per decretare la fine della vita di un’altra persona non è sufficiente a chiudere una doverosa riflessione.
La posta in gioco non è l’uso di intelligenze artificiali per il giudizio di merito, come in alcuni scenari distopici, quanto piuttosto l’incidenza del mascheramento digitale nella discrezionalità del giudice e la dignità della persona sottoposta al procedimento. Il giudizio giuridicamente inteso, soprattutto nei sistemi di common law che prevedono la presenza di una giuria di pari, è intimamente legato al fattore umano. Il motto ciceroniano «summum ius summa iniuria» è a fondamento del principio della discrezionalità, che assegna al soggetto giudicante quel margine di manovra che rende la giustizia non un mero fatto computazionale/algebrico di azione-reazione causa-effetto.
Questioni etiche insite nella mediazione digitale
L’intermediazione digitale e la virtualizzazione del procedimento rischiano di alterare significativamente l’atteggiamento interiore di chi deve giudicare, soprattutto se non è – almeno nel futuro immediato – un nativo digitale che ha una minore attitudine a separare materiale e immateriale.
La seconda questione riguarda la dignità della persona, chiamata a vivere una rappresentazione filmata di un tratto significativo della sua esistenza, a stare più su un palcoscenico che al centro della propria vita. Il male mediato da uno strumento digitale rischia sempre di essere svuotato e ridotto a finzione, una finzione fruita soggettivamente laddove essa è per definizione rottura di relazioni intersoggettive.
In questo schema giudici, giurati, persone offese, la persona sottoposta a giudizio vivono tutte in maniera esclusivamente solitaria un procedimento che nasce per il fine opposto, la socializzazione del comportamento antisociale, che viene sanzionato con lo scopo della risocializzazione del reo o la stigmatizzazione capitale del fatto, laddove la pena sia la morte.
La mediazione digitale trasforma il giudizio in opinione, il fatto in esclusiva narrazione, il soggetto nella sua rappresentazione digitale, il giudicante in spettatore. La custodia della fisicità, laddove le questioni sono intimamente intersoggettive, è un bene che non può essere eluso senza compromettere in radice proprio quel bene che si vuole tutelare, almeno finché la percezione esistenziale che abbiamo della smaterializzazione è culturalmente così ibrida e poco tematizzata nella nostra società. Anche nella pandemia.
Luca Peyron è presbitero della diocesi di Torino, coordinatore del Servizio per l’apostolato digitale, docente di teologia all’Università cattolica di Milano e di Spiritualità delle tecnologie emergenti all’Università di Torino. Ha scritto Incarnazione digitale (Elledici, Leumann 2019).