Essere chiamati/chiamare per nome
Velocemente, fin troppo, stanno scorrendo questi miei giorni di sospensione dalle attività scolastiche e accademiche, lavorative in genere. Sto beneficiando di affetti, di riposo, di tempo ma soprattutto del privilegio, raro durante l’anno, di essere chiamata semplicemente “Gaia”, per nome. Non “Dottoressa”, “Professoressa” o, come fanno più agevolmente i miei studenti più piccini, “Proffff!”. Non sono interpellata per il mio ruolo, ma chiamata per quella che sono. Gaia. Tout-court.
Il nome nella Bibbia e nella nostra tradizione
Molte pagine e riflessioni sono state scritte, nel corso dei secoli, circa l’importanza del nome e alcune tra le pagine bibliche più belle ci rinnovano l’invito a questa meditazione. La tradizione giudaico-cristiana mostra l’essere umano come colui che dà il nome a tutte le creature, cercandone il senso, un ruolo, una funzione, ma è anche colui che “riconosce” l’altro, non gli impone nome (cfr. Gen 2). C’è qualcosa di straripante nel nome dell’altro, che non siamo noi a porre. «Come è il suo nome, così è lui» (1Sam 25, 25): come a dire che il nome indica l’essenza e la realtà di una persona. Conoscere, pronunciare il nome di una persona (o di Dio!) equivale ad avere intimità, conoscenza profonda, talora anche “possesso”.
Perché sì: la Bibbia è scandita anche dalla richiesta fatta a Dio di conoscere il Suo nome: «Dimmi il tuo nome» (Gen 32,30), implora Giacobbe dopo la lotta notturna e «Mi diranno: come si chiama? E io che cosa risponderò loro?» (Es 3,13b) interroga Mosé. D’altra parte se noi possiamo dare un nome a Dio è perché Lui ce lo ha comunicato, offerto. Noi crediamo in un Dio che non si nasconde, ma che si fa chiamare e ci chiama perché, trinitariamente, da principio, ha un nome. E nel suo nome si comunica a noi. «Nel suo nome» è in mezzo a noi (Gv 14,14).
Tre evidenze morali
La storia d’ognuno è in qualche modo la storia del proprio nome. E ognuno, nel suo nome, porta iscritte originalità e socialità.
Porto un nome, Gaia, per la prima e unica volta nella mia famiglia. E sono Gaia De Vecchi, non Fabio De Vecchi (mio fratello). Spesso vengo chiamata “Gaietta” perché fisicamente sono assai minimale… e pure questo dice qualcosa di me. O “Gaia di Mirella e Marco” (i miei genitori): il mio nome nei loro nomi. Possiedo un onomastico: minore, certo, ma pur sempre tradizione e costruzione ecclesiale. Sono, inoltre, stata battezzata anche come Gemma Giovanna, nel segno di un affetto: sono i nomi dei miei zii. E De Vecchi, il mio cognome, racconta la mia appartenenza a un gruppo, a una storia ben precisi, nel tempo e nello spazio. Tutte realtà – legami, storia e storie, geografie, tradizioni, comprensione e precomprensioni... – a che mi hanno preceduta (e ancora mi precedono), che non sono stata io a porre, ma che mi… chiamano, appunto!
Ecco allora che all’inizio di un nuovo anno credo sia importante impegnarsi trovare tempo per essere chiamati / chiamare per nome per tre motivi, queste tre evidenze morali che si attirano e rilanciano vicendevolmente, senza strappi cronologici:
- Il nome individualizza e personalizza. Il nome indica l’identità, la vocazione, richiamandoci all’esigenza di ascolto e di risposta rispettosa.
- Il nome socializza. Il nome porta inscritti in sé il legame e la storia in cui siamo inseriti. Permette il dialogo.
- Il nome, pertanto, responsabilizza, sintetizzando la relazione intima tra il nostro essere personale e il nostro essere sociale, offrendo luogo di impegno e relazione, di discernimento dei “segni dei tempi”. Con Dio, con gli uomini.
Trovare il tempo di essere chiamati (da Dio, dagli altri) / chiamare per nome (Dio, gli altri) non può essere ridotto a una funzione superficiale, indicativa, nominale (e nominalistica), di distinzione ma è più profondamente un richiamo alla nostra capacità etica e, più profondamente, umana.