Bioetica, chi viene da Marte e chi da Venere
Immaginate che gli uomini vengano da Marte e le donne da Venere. Un giorno di molto tempo fa, guardando nei loro telescopi, i marziani scoprirono le venusiane. Questo bastò a risvegliare in loro sentimenti fino a quel momento sconosciuti. Si innamorarono e in tutta fretta inventarono i viaggi spaziali, raggiungendo così Venere. […] Poi decisero di raggiungere la Terra. […] Sia i marziani che le venusiane dimenticarono di provenire da mondi diversi e di essere quindi per forza differenti. In una sola mattinata tutto quello che avevano imparato venne cancellato dalla loro memoria. E da quel giorno uomini e donne sono vissuti in conflitto.
Così scrive John Gray, psicologo e saggista statunitense, sintetizzando uno stereotipo secondo cui ancestrali differenze opporrebbero l’universo maschile a quello femminile. Diversità di pensiero, diversità di linguaggio e diversità di azione opporrebbero da sempre uomini e donne: i primi – secondo una nota querelle tra due psicologi dell’età evolutiva, Lawrence Kohlberg e Carol Gilligan – parlerebbero e ragionerebbero in termini di giustizia, le seconde in termini di cura.
La questione, tuttavia, non si riduce al solo ambito della comunicazione. Anche l’etica, infatti, ha parlato – e forse continua ancora a parlare – un linguaggio fin troppo “marziano”, attribuendo valore assoluto ai criteri di prescrittività, universalità e giustizia e ritenendo moralmente retto solo chi è capace di formulare giudizi personali e di ispirare le proprie azioni a principi assoluti. La grammatica etica “venusiana” costituirebbe una “voce differente” che predilige il prendersi cura all’attenzione ai diritti e che cerca la risoluzione ai problemi non nell’intimo dell’esperienza morale personale, ma nell’universo di relazioni in cui ogni persona è inserita.
L’etica della cura considera, pertanto, moralmente rilevante non tanto la singola azione posta in essere da un individuo, ma l’impegno di ciascuno a protendersi verso l’altra persona: ciò che conta non sono i doveri, ma i legami tra le persone. Inoltre, questo impianto morale “venusiano” è particolarmente attento al contesto e spinge per una moralità situata in concreto, per particolari agenti morali e in una società particolare.
Infine, la cura non si pone il problema di delineare principi astratti validi per tutti in ogni luogo e in ogni momento della storia, ma, riservando attenzione alle emozioni e ai sentimenti che l’attività di cura porta con sé, considera ogni individuo e ogni problema morale nella sua unicità e irrepetibilità storica ed etica. Se pensiamo solo alla bioetica, questo comporterebbe uno stravolgimento della disciplina a partire dal suo metodo. Non più un rigido schema deduttivo, ma un metodo induttivo che parte dall’analisi dell’esperienza umana per valutare ogni singola questione alla luce delle relazioni, del contesto e della particolare situazione dell’agente morale.
Siamo di fronte a una bioetica gender? Non esattamente! Pensiamo tuttavia che una bioetica che parli un linguaggio “venusiano” possa presentarsi come una bioetica del quotidiano, che si pone “al letto del malato” e che solleva numerose questioni che riguardano non solo l’impianto tradizionale della disciplina, ma tematiche spesso ritenute marginali nella riflessione bioetica come l’allocazione delle risorse sanitarie, la formazione dei medici e degli infermieri, la sperimentazione e le cure mediche, la relazione medico-paziente, medico-familiari e paziente-familiari e, non per ultimo, la cura del creato.
È tempo che bioetica “marziana” e bioetica “venusiana” comincino a dialogare…