Abitare diversamente | La camera da letto
Dopo porta, bagno, cucina, studio… eccoci pronti a entrare in camera da letto, quasi in punta di piedi, perché è sempre ritenuto uno spazio molto personale.
Le camere si presentano con alcuni mobili sempre esposti (il letto, appunto, ma anche l’armadio, il comodino…), e con caratteristiche corrispondenti ai suoi inquilini. La camera di un bimbo è diversa da quella di un adolescente o di una coppia… ciò mi richiama ad alcuni «diritti» fondamentali di ciascuno (dal riposo, alla salute, all’intimità), declinati nelle stagioni della vita.
E già questo tema meriterebbe degli approfondimenti. Nel mio vagare per la casa in questo tempo strano, però, mi sono accorta che potrei definire la camera da letto come lo spazio per la nudità.
Siamo nudi, siamo esposti. In camera da letto siamo spesso nudi fisicamente: quando ci cambiamo d’abito, ad esempio, anche solo per mettere il pigiama. O nella intimità (talora feconda) delle coppie. Ma siamo pure nudi interiormente: siamo nudi nel sonno (nel gioco tra coscio e inconscio), siamo nudi nei sogni (quelli con gli occhi chiusi e quelli con gli occhi aperti). Siamo nudi quando, malati, rimaniamo a letto. Siamo nudi anche nelle preoccupazioni che ci fanno trascorrere «notti in bianco»…
La nudità come vulnerabilità paziente
La vulnerabilità, dal latino vulnus (ferita), indica ciò che può essere ferito, spezzato. Di per sé riconoscersi vulnerabili non è già un giudizio morale: ciò non designa l’essere agente come «buono» o «cattivo». Tuttavia: il riconoscersi vulnerabili, «da capo a piedi, sino alle midolla delle ossa», come indica Lévinas (Umanesimo dell’altro uomo), comporta un appello alla cura e alla responsabilità (del mio corpo, di me, di un tu, di un noi…).
L’appello alla cura non è certo un semplice appello alle cure e alle sue prestazioni: è piuttosto un atteggiamento (virtù?) che richiama la forma fondamentale di ogni nostra relazione. Ecco perché mi piace parlare di «vulnerabilità paziente». Paziente, etimologicamente (dal greco paskein), significa che riceve, che prova un’impressione, una sensazione (sia positiva, sia negativa), che sopporta, che soffre. Una nudità paradossale, quindi: non (si) spoglia, ma (si) riveste. Un paradosso fecondo per la riflessione etica. In particolare quella teologico-morale.
La nudità come vocazione
La camera da letto, almeno per me che vivo da sola (le dinamiche tra fratelli o tra coniugi che dividono lo stesso spazio sono probabilmente differenti) è anche lo spazio in cui esercito un’«attività mentale» a briglia sciolta: se nello studio il mio pensare è rigoroso e scandito da necessità professionali, in camera da letto ragiono, certo, ma immagino anche, sogno, ipotizzo, prego, leggo un romanzo o qualcosa di ameno (vietati i libri di teologia morale a letto!), mi preoccupo per uno studente o un caro, guardo il mondo da un’altra posizione fisica (da supina, lo guardo dal basso verso l’alto)… è lo spazio in cui, in qualche modo, ricreo la mia storia e quella delle mie relazioni. È uno sguardo differente, in cui rientro nella (mia) vita, non mi alieno.
La nudità è, pertanto, quella vocazione primaria cui siamo chiamati tutti, quella di essere pienamente umani nella nostra singolarità. È quanto esprimeva Martin Buber: «Ciascuno è tenuto a sviluppare e a dare corpo proprio a questa unicità e irripetibilità, non invece a rifare ancora una volta ciò che un altro – fosse pure la persona più grande – ha già realizzato. La stessa idea è stata espressa con maggiore acutezza da Rabbi Sussja in punto di morte: “Nel mondo futuro non mi si chiederà: Perché non sei stato Mosé? Mi si chiederà invece: perché non sei stato Sussja?» (Il cammino dell’uomo).
La camera da letto, proprio con la sua offerta di nudità intesa come vulnerabilità paziente e vocazione, è quel luogo in cui posso rientrare in me stessa, senza orpelli, senza trucco, rileggere il quotidiano con tutti i suoi imprevisti, riposarmi, vivere attimi di intimità… regalandomi uno spazio (fisico e non fisico nel contempo) per riconoscere il tempo come kairòs.
Una camera da letto che mi piace definire anche con le parole del Cantico: «Mi sono addormentata, ma veglia il mio cuore» (5,2). Ovvero una camera da letto che ci invita all’autenticità e alla fiducia, a un’esperienza morale vissuta come costante ricerca dell’umano, anche nelle sue brevi – o lunghe – notti. Quell’umano di cui si è rivestito Gesù di Nazaret dopo essersi denudato (cf. Fil 2,6-7).
Gaia De Vecchi è insegnante di religione presso l’Istituto Leone XIII e docente presso l’Università cattolica del Sacro Cuore e l’Istituto superiore di scienze religiose a Milano. Fa parte dell’ATISM e del gruppo di redazione di Moralia. Ha scritto Il peccato è originale?, Cittadella, Assisi 2018.