L’aggressione di Putin all’Ucraina è già costata migliaia di morti. «Fiumi di sangue e di lacrime», come ha detto papa Francesco. Un’altra «inutile strage», in nome della volontà di potenza che è diventata, oltre ogni previsione, l’esercizio brutale della potenza. Il potere di un autocrate torna a mostrare la propria forza demoniaca.
La decisione del presidente russo Vladimir Putin d’attaccare l’Ucraina il 24 febbraio scorso e l’inizio della guerra hanno collocato la Chiesa ortodossa russa in una situazione estremamente difficile. Mentre un’alta percentuale delle sue comunità si trova in Ucraina e lì la maggior parte dei fedeli è leale verso lo stato ucraino, la posizione della Chiesa ortodossa russa è sempre molto vicina allo stato russo: questo genera un conflitto interno, il cui esito al momento non è prevedibile.
L’atteso pronunciamento del patriarca di Mosca Cirillo sull’invasione ucraina da parte dell’esercito di Vladimir Putin è finalmente arrivato. La sua presa di posizione era attesa non solo dagli ortodossi russi e ucraini ma anche dai cristiani di altre confessioni, per comprendere quali margini di manovra abbiano le Chiese nella soluzione della vicenda.
Il 6 marzo, nella cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca, il patriarca della Chiesa ortodossa russa Cirillo ha pronunciato l’omelia per la «Domenica del perdono», inizio della Quaresima ortodossa (https://bit.ly/3JcEGSn). Ne riprendiamo qualche stralcio dalla traduzione inglese di Bitter winter (https://bitterwinter.org/).
Michael Walzer, filosofo politico, docente emerito dell’Institute for Advanced Study di Princeton, è stato condirettore per più di trent’anni della rivista Dissent, con cui tuttora collabora. L’intervista è stata registrata il 23 febbraio 2022, alla vigilia dell’aggressione russa all’Ucraina.
Prete, teologo e sociologo, mons. Tomáš Halík è una figura importante della Chiesa ceca. Molti dei suoi scritti durante la pandemia hanno suscitato una forte eco in vari paesi. La sua esperienza di Chiesa sotto il regime comunista, unitamente agli ultimi avvenimenti, lo porta a gettare uno sguardo pungente sul futuro del cristianesimo in Europa.
Per gli standard vaticani lo si può ben definire un «maxi-processo», e le sue stesse dimensioni costituiscono una sorta di «stress test» per la tenuta del sistema giudiziario d’Oltretevere. Ha impiegato 7 mesi e 2 giorni, dalla prima udienza del 27 luglio 2021 alla nona del primo marzo 2022, il processo al Tribunale vaticano sulla gestione dei fondi della Segreteria di stato per uscire dalla fase delle schermaglie – e in certi momenti, delle baruffe – procedurali e avviarsi finalmente verso quella dibattimentale.
Ha sollevato ampia risonanza mediatica la registrazione – l’orologio al polso del pontefice segnava le 17, la trasmissione è iniziata alle 21 – dell’intervista a papa Francesco mandata in onda da Rai 3 il 6 febbraio scorso. Non è la prima intervista che Bergoglio concede alle televisioni italiane.
Il Mediterraneo «è un luogo dello spirito e non solo geografico. I confini del Mediterraneo arrivano fino in Ucraina. Per questo diciamo “No” alla guerra, “No” alla guerra, “No” alla guerra!» (Dario Nardella, sindaco di Firenze). Svoltosi dal 23 febbraio al 27 febbraio 2022, praticamente in contemporanea all’inizio dell’invasione dell’Ucraina decisa dal leader russo Putin, «Mediterraneo frontiera di pace 2» conteneva già nel titolo la responsabilità d’esprimere un giudizio sulla tragedia in atto nell’Est Europa, e a tale responsabilità l’evento non si è certo sottratto.
Fino a Pentecoste c’è tempo per «presentare idee», per condividere esperienze, per raccogliere le richieste di quelle comunità di stranieri che già da anni partecipano alle liturgie e s’incontrano in parrocchia. Tutte le sollecitazioni verranno analizzate con l’obiettivo d’«arrivare a scrivere nel 2023 il progetto di pastorale dei migranti diocesana».
Esiste una sfida, per la Chiesa, particolarmente impellente, data la sua radicalità e la sua urgenza e dato il fatto che si tratta di qualcosa che incrocia in diversi modi le questioni suddette. È la grande questione della sua missione dentro questo mondo, che si potrebbe esprimere con alcune domande suggestive, che agitano certamente la mente e il cuore di quei cristiani che continuano a custodire il desiderio di trasmettere ad altri la fede che vivono: come può ancora la Chiesa annunciare il Vangelo agli uomini di oggi?
Una guerra nella guerra. Subdola, impalpabile, che cerca di farsi largo fra le nostre coscienze a colpi di fake news e un sistema di media allineati, specializzati nel distorcere e ribaltare. Un leader, Vladimir Putin, che pensa e agisce da uomo del secolo scorso, con un delirante progetto di stampo neo-imperiale e che, con l’invasione dell’Ucraina, ha riportato il Vecchio continente indietro di decenni.
Il profilo intellettuale di Sergio Quinzio, che è teologico ma non solo, non può essere tracciato se non si parte dal carattere straordinario della sua figura di credente. La sua era una fede eccezionale, non solo intensa, libera, convinta, ma anche integrata nella sua vita e nella profondità del suo pensiero, e per queste ragioni era una fede capace di attrarre e interpellare anche i non credenti.
Alexandru-Marius Crişan prova a rileggere la preparazione e lo svolgimento del Concilio di Creta, con le ricadute antropologiche insite nelle affermazioni dei documenti votati, alla luce della teologia della persona, approfondita nella teologia ortodossa del XX secolo da parecchi studiosi e pensatori religiosi.
E se il mondo stesse evaporando, stesse cioè perdendo, lentamente ma inesorabilmente, il suo spessore corporeo e materiale? Il filosofo tedesco di origini sudcoreane Byung-chul Han, da anni impegnato in una vigorosa quanto implacabile critica del presente, impugna nuovamente il suo «martello filosofico» di nietzschiana memoria, e lo scaglia contro la contemporaneità, nella quale siamo trascinati da forze sempre più potenti.
La nuova stagione aperta da papa Francesco, con la sua insistenza sulla cura della fragilità e dei rapporti famigliari feriti, rilancia la centralità del messaggio salvifico di un Dio che viene incontro a ogni uomo che rischia «la propria libertà nel grande “lavoro” del vivere e dell’amare»
Il cattolicesimo organizzato visse nel corso della Prima guerra mondiale contraddizioni e ricerche, su cui recentemente si sta rinnovando una nuova e feconda stagione di studi, dopo decenni di relativa stasi (...) Recentemente, ha preso maggior forza una corrente intellettuale che sottolinea l’importanza di studiare una forma definita come «religione di guerra», attraverso l’analisi del discorso collettivo e della mentalità, influenzata da una svolta degli studi che ha messo al centro della storiografia le percezioni soggettive e la costruzione culturale degli universi simbolici.
«Tempi bui», con questa espressione il noto costituzionalista si schiera a favore dell’importanza che, nonostante tutto, riveste il ruolo dell’intellighenzia, specie in questa fase storica dove, oltre alla pandemia da COVID-19, s’assiste al dilagare di un’altra non meno tragica: quella di un’ignoranza di base e dei suoi effetti deleteri sulla società e sulla democrazia.
Il volume ci mostra i nostri «vizi» ecclesiali, quelli tradizionali e quelli di più recente concezione: il «convegnismo» e «riunionismo» (versioni artefatte della sinodalità, che attraversano molti capitoli) e il clericalismo, l’immobilismo e il «digitalismo» e «giovanilismo», il «documentismo», il maschilismo e le piccole forme di clientelismo. Fino all’abuso del linguaggio ecclesialese, di cui esibisce vari saggi tanto nella versione «progressista» quanto in quella «tradizionalista».
Don Giovanni Antonazzi (1913-2007), funzionario della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, nel 1992 pubblica presso la Morcelliana con la prefazione di Loris Capovilla Don Giuseppe De Luca uomo cristiano e prete. La biografia, che segue quelle di Luisa Mangoni e di Romana Guarnieri, sa penetrare lo spirito di De Luca «ripresentandolo con straordinaria finezza e acutezza» (XIX).
Paolo Bertezzolo conduce il lettore a immergersi nella multiforme produzione turoldiana con amorosa dedizione, scandagliando il continuo dibattersi di padre David, il suo avanzare da un’opera all’altra in un procedimento che definisce «a spirale», riconoscendovi le «tappe di un percorso unico» in cui le ripetizioni aprono a significati e interpretazioni nuove.
C’è un tempo, nella fantascienza, per vermi giganti, alieni sinistri, astronavi enormi e imperi morenti. E c’è una fantascienza che non ha bisogno di tutto questo.
Sei cantieri, sei piste di lavoro che l’insieme dei teologi propone alla Chiesa italiana all’inizio del suo Cammino sinodale. «Frutto di un percorso di tre anni di riflessione del Coordinamento delle associazioni teologiche italiane (CATI)» il testo, intitolato Per una Chiesa povera, dialogica, umile. Il Coordinamento delle associazioni teologiche italiane per la riforma della Chiesa, è un «contributo a un dibattito che assume particolare rilievo nel processo sinodale che stiamo vivendo». D’altra parte – dicono i teologi – «ciò che vorremmo proporre come riforma è, infatti, più di un cambiamento incrementale, mosso cioè dalla semplice preoccupazione di far funzionare meglio quanto già esiste: suppone una coscienza collettiva, un’intenzionalità e richiede la trasformazione delle forme e il cambiamento delle strutture».
E come ribadisce lo storico Riccardo Saccenti, «sinodalità e riforma emergono come due poli» necessari al cammino di ogni Chiesa: la prima implica «una consapevolezza matura della soggettività del popolo di Dio quale realtà comunitaria unita sul fondamento del battesimo»; la seconda implica l’idea di un’«incompletezza» che a partire dal «radicamento nella Parola e nella storia fa del bisogno mai soddisfatto di esprimere la totalità dell’annuncio evangelico l’apertura al futuro, all’unità dell’incarnazione».
A metà degli anni Ottanta la casa editrice Marietti richiese a 10 teologi italiani una testimonianza sul loro essere teologi in vista di un volume che poi pubblicò con il titolo Essere teologi oggi. Dieci storie. Tra questi teologi vi era Carlo Molari che iniziò il suo intervento così: «Fare teologia non è un mestiere o un semplice servizio reso agli altri, ma è un modo concreto di vivere la fede ecclesiale, è uno stile di vita, e per me, oggi, è componente d’identità personale, ragione di tutta la mia storia».