Diari ucraini
Rilettura d’impulso, in questi mesi scellerati. A suo tempo acquistato per giusta curiosità. Chi oggi volesse, da lettore accanito e seriale, cercare di capire qualcosa di quello che capita senza schiantarsi per eccesso di complessità o per invincibile senso d’inferiorità, e nello stesso tempo volesse un poco capire e ragionare, ecco, allora può leggere Diari ucraini, di Andrei Kurkov (Keller, Rovereto [TN] 2014, traduzione di Sibylle Kirchbach).
La rivoluzione ucraina del 2014 si era appena confusamente esaurita, dopo la strage dei «Cento beati» nella Maidan Nezalezhnosti, Piazza Indipendenza a Kiev, fra il 18 e il 19 febbraio e Keller subito pubblicava questo libro bello e tremendo. Kurkov è autore ucraino che scrive in russo e abita a Kiev, a due passi da quella che l’Occidente chiama, semplificando, Piazza Maidan, luogo in cui dal novembre 2013 al marzo 2018 si è dipanato il movimento di protesta che si è concluso con la caduta del presidente Janukovič, l’annessione della penisola di Crimea alla Russia, l’elezione di Poroshenko, la firma degli accordi economici fra Unione Europea e Ucraina, quelli da cui tutto era partito, nel novembre del 2013.
I Diari ucraini hanno la qualità della letteratura che incontra la storia. Una meraviglia di scrittura che porta noi lettori a vedere la vita di Kiev, e di conoscere Kurkov e la sua famiglia sufficientemente normale, moglie inglese e tre figli che vanno a scuola, e poi di seguire la progressiva multiforme occupazione di Piazza Maidan da parte di giovani, meno giovani, intellettuali, poi ancora cercatori d’avventura, poi infiltrati, opportunisti, spie, manipolatori dell’informazione e degli umori, pubblici umori.
I Diari ucraini partono dal 21 novembre 2013, giorno in cui cade una meteorite su Sebastopoli «la città più russa di tutta l’Ucraina... le cui pittoresche insenature fungono da base per la flotta militare russa» (13), ma anche il giorno in cui Janukovič ha sospeso la firma dell’accordo d’integrazione economica fra Ucraina e UE, un’altra meteorite sulle speranze degli ucraini non filorussi. La sera la televisione annuncia che Putin incrementerà i rapporti con l’Ucraina, dopo tre anni di guerra commerciale, ed è chiaro lo scambio che è avvenuto. Così i social invitano ad andare in piazza a chiedere che l’accordo venga firmato. Si consiglia di portare thermos di tè, vestiti caldi, tappetini per passare la notte.
Il giorno dopo «la polizia ha contato circa 20.000 partecipanti, nei telegiornali russi si è parlato di “alcune migliaia”, mentre l’opposizione ha dichiarato che in piazza, a protestare contro il governo e il presidente, erano più di 100.000» (21). È solo l’inizio. Nel tempo le cose si confondono. La Piazza diventa un quartiere con tende per dormire, per mangiare, per discutere, per creare. Ce n’è anche una che si chiama Mistec’kij Barbakan, il Barbacane degli artisti, con opere d’arte nate intorno alla protesta. Si tengono incontri e conferenze (114).
Ma un poco alla volta compaiono personaggi di ogni tipo. Accanto ai berkut, le forze speciali antisommossa già esistenti e via via sempre più sciolte da ogni forma di regola e legge, c’è la polizia che vive di privilegi grandi e piccolissimi (il poliziotto che prende il gelato al chiosco per suo figlio e non paga), ci sono gli studenti e i volontari, e anche i surreali «guerrieri di Narnia» (186) che con bastoni e coltelli occupano una banca ma non sono interessati ai soldi o al potere, solo sono amanti del fantasy e vogliono esistere in una qualche forma di identità.
In mezzo c’è di tutto. C’è chi viene ucciso per caso, chi per vendetta personale, chi crede di far bene, chi sfrutta la situazione, fino a che si arriva ai cento morti di febbraio, i «Cento beati» come vengono chiamati, uccisi soprattutto da cecchini non meglio identificati. Dopo la fuga di Janukovič e il referendum lampo della Crimea, Kurkov annota che il meteo della televisione russa adotta improvvisamente una cartina metereologica che comprende Crimea, Donbass e Char’kov, una cartina che «sembra essere quella personale di Putin, e rappresenta più che altro come lui desidera che sia il paese. O forse stanno preparando gli spettatori russi a un ampliamento dell’occupazione dei territori ucraini. In questo caso bisognerebbe seguire con maggiore attenzione le previsioni meteo della TV russa. Chissà che non dicano anche che tempo fa a Kiev, Varsavia, Riga e Vilnius» (201).
I Diari finiscono con aprile, con la nota surreale che «un teatro di Mosca ha cambiato al volo la storia di Cipollino, di Gianni Rodari. La rivolta delle verdure contro il principe Limone è stata cancellata. Ora gli ortaggi scontenti consegnano al principe una supplica e chiedono riforme» (266).
La Postfazione datata giugno 2014 chiude con parole che oggi hanno un suono nuovo: «Si può dire che la situazione si presenta senza via d’uscita. O una vera guerra con migliaia di morti da entrambe le parti e forniture illimitate di armi dalla Russia ai separatisti, o la resa per l’assenza di un sostegno tecnico e militare da parte dell’Europa e della NATO e per la debolezza del proprio esercito. Oppure ancora: accettare che la Russia annetta il Donbass. Ma accettare una cosa simile significherebbe lasciare mano libera alla Russia verso una graduale annessione di tutti i territori ucraini, o quasi, esclusa l’Ucraina occidentale» (288).
Andrei Kurkov è un grande romanziere. Di lui grazie all’editore Keller abbiamo letto poi la trilogia Geografia di uno sparo solitario, ironica, irresistibile attraversata della storia sovietica, paradossale, precisa nei riferimenti storici e insieme surreale. Letteratura pura e appunto la letteratura ha questa sua propria capacità di raccontare con empatia, di farci sospendere il giudizio sulle persone e d’aiutarci insieme a trovare un pensiero nuovo che parta dall’obiettivo minimo di ogni vita, cercare di esistere senza aumentare l’infelicità degli altri.