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Attualità
Attualità, 6/2022, 15/03/2022, pag. 203

Beato chi piange

Vale anche in guerra e in pandemia?

Luigi Accattoli

Mi chiamano in due parrocchie romane a introdurre uno degli otto appuntamenti sinodali intitolati alle beatitudini: «Beati quelli che sono nel pianto perché saranno consolati». I parroci mi suggeriscono di tener conto delle direttive venute dal vicariato, che propone di fare di questi incontri un laboratorio sinodale che prende avvio dalla preghiera: dunque la breve lectio sulla beatitudine dovrebbe sia aiutare a creare il giusto raccoglimento orante, sia stimolare la riflessione – sempre orante – sui possibili campi d’impegno della comunità parrocchiale ispirati al tema o all’oggetto della beatitudine. 

Mi sento fortunato a vedermi assegnata questa beatitudine, la più semplice di tutte quanto all’individuazione di «quelli che sono nel pianto». C’è da sempre disputa su chi siano i «poveri in spirito» o i «miti», o i «puri di cuore»: ma quelli che piangono li conosciamo benissimo.

Sappiamo tutti
che cosa sia il pianto

A nessuno è negato il pianto sulla terra e dunque sappiamo tutti che cosa siano le lacrime e che cosa sia la morte, per la quale sempre e tutti si piange.

Questa è l’esperienza nostra. Ma anche come parole che vengono da Gesù, queste, della seconda beatitudine secondo Matteo, non potrebbero essere più univoche quanto al loro oggetto, al loro significato.

Il nostro Rabbi piange per la morte dell’amico Lazzaro (Gv 11,35: «Gesù scoppiò in pianto») e piange su Gerusalemme destinata alla distruzione proprio come oggi ricapita alle città dell’Ucraina (Lc 19,41: «Alla vista della città pianse su di essa»).

Gesù dice «non piangere» alla vedova di Nain che porta l’unico figlio alla sepoltura (Lc 7,13) e chiede alla Maddalena il mattino di Pasqua: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?» (Gv 20,14).

Sulla terra si piange ogni giorno per mille motivi, ma il motivo dei motivi, quello che li riassume tutti, è la morte. Ed è per lei che Gesù ha pianto, è per lei che Gesù ha detto «non piangere», o «perché piangi».

L’esperienza del pianto – ho provato a dire nelle due lectio – oggi la possiamo richiamare su due fronti, ambedue legati all’imperversare della morte: il fronte della pandemia che da due anni ci tormenta e ora il fronte della guerra.

Della guerra non dico molto, perché i telegiornali già dicono tutto. Lo spavento dei morti e dei morti insepolti. I poveri soldati russi che si prendono pallottole in testa appena escono dai blindati e i poverissimi ucraini dilaniati da missili e cannonate. Semmai un minimo richiamo lo dovremmo fare ai filorussi del Donbass che dal 2014 sono anche loro vittime sacrificali.

Della pandemia invece qualcosa debbo dire, perché anch’io sono stato in ospedale e ho visto passare – nel corridoio che era oltre la parete a vetri – la lettiga mortuaria. E perché già prima d’ammalarmi e anche dopo, fino a oggi, mi sono adoperato a raccogliere nel mio blog storie di pandemia, 72 delle quali sono poi confluite in un volume che ho curato con l’aiuto del collega Ciro Fusco: Fatti di vangelo in pandemia, editrice ViTrenD (cf. Regno-att. 22,2021,707s).

Un buon numero di quelle storie segnala che è possibile – nel duello con la morte che vivi quando ti manca il respiro – compiere un atto di affidamento, cioè di fiducia. Di consegna di sé al Signore. Insomma: un atto di fede. 

La parola affidamento in un primo momento suona difficile, astratta. Ma diviene chiara se la prendi secondo l’accezione, cioè la valenza, il particolare significato che essa ha nella Passione secondo Luca, dove le ultime parole di Gesù sulla croce sono: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). 

Affidamento
come decisione salvavita

Un atto: non un puro sentimento, ma qualcosa come una decisione. Una decisione per la vita. Simile a quelle che rappresentano un tornante nei nostri pochi giorni: quando ti sposi, quando cambi lavoro, quando pronunci i voti solenni, quando ti risolvi ad affrontare un intervento chirurgico salvavita.

Con quell’atto d’affidamento scegliamo di gettare le reti sulle parole di Gesù che nei Vangeli promettono aiuto e vicinanza: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28); «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).

Ma che senso, che significato può avere questa fiducia quando vediamo morire tanti intorno? E sia in guerra, sia in pandemia, sia quando a falciarci come erba destinata a fieno sono gli ictus, i tumori, gli infarti di sempre.

L’affidamento – ho provato a dire alle due miniassemblee parrocchiali – è un atto di fiducia che accetta il mistero, cioè l’impossibilità di comprendere con la ragione quello che ci è stato promesso. Il Signore Gesù ha promesso di essere con noi e dunque egli è con noi anche se noi non lo vediamo.

Ci affidiamo: cioè accettiamo fiduciosamente quello che ci potrà accadere. Sempre tenendoci stretti a lui e alle sue parole. E mentre proviamo ad affidarci, anche invochiamo che l’affidamento si compia: perché esso non può essere semplicemente opera nostra. 

Mi figuro dunque che il cristiano – ognuno tra noi – possa cercare, se ne ha il dono, di compiere lo stesso affidamento di se stesso che ha compiuto Gesù sulla croce. Di tentarlo prendendo a guida della preghiera le sue parole. Nella speranza che da quel male possa venire infine un bene. Un bene per sé o per altri, oggi o domani, mentre siamo ancora in vita o dopo la morte.

Piangete
con coloro che piangono

Se la prospettiva – pur a noi oscura – è la guarigione, avremo a guida dell’invocazione le parole della beatitudine che stiamo meditando, o quelle del passo parallelo di Luca: «Beati voi, che ora piangete, perché riderete» (Lc 6,21). 

Se la prospettiva – a noi oscurissima – è la morte, avremo queste altre: «Oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23,43).

In risposta alle domande che mi sono state poste al termine delle due conversazioni, ho indicato tre modalità nelle quali potremmo forse sperimentare un qualche anticipo della beatitudine che Gesù promette a chi piange e che sarà piena solo quando saremo nel suo Regno.

Prima modalità: la grazia stessa dell’affidamento. Quell’atto che ho descritto produce serenità e ravviva la speranza nella consolazione che ci è stata promessa.

Seconda: l’avvertenza della presenza del Signore accanto a noi. Alcuni tra i guariti dal COVID hanno raccontato di un’esperienza di beatitudine – una volta compiuto l’affidamento – mai sperimentata prima. Tra questi, il vescovo di Pinerolo Derio Olivero.

Terza: la capacità donata di unirci al pianto altrui. «Piangete con quelli che sono nel pianto» (Rm 12,15). 

Alla fine è arrivata la domanda più difficile: come farci operatori, o discepoli, di questa beatitudine, cioè cooperatori del passaggio dal pianto alla consolazione. Ho risposto rifacendomi agli spunti che in proposito aveva dato papa Francesco con l’esortazione Gaudete et exsultate (2018), invitando a implorare il dono delle lacrime: «Il mondo non vuole piangere: preferisce ignorare le situazioni dolorose, coprirle, nasconderle. Si spendono molte energie per scappare dalle situazioni in cui si fa presente la sofferenza, credendo che sia possibile dissimulare la realtà, dove mai, mai può mancare la croce» (n. 75; Regno-doc. 9,2018,276). 

Saper piangere con gli altri:
questa è santità

Che farà dunque una parrocchia? Proverà a monitorare i luoghi e i
personaggi della sofferenza nel proprio territorio, invece di eluderli.
È spontaneo soccorrere chi si presenta ai nostri sportelli a chiedere aiu-
to. Per questo siamo preparati. Molto di meno lo siamo per prendere
l’iniziativa e per andare a cercare chi si vergogna di chiedere aiuto e sof-
fre in silenzio. «Saper piangere con gli altri, questo è santità», concludeva Francesco in quell’ottimo paragrafo della sua esortazione «sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo». 

Ho fatto ricorso anche a un altro testo di Francesco: la seconda delle «Beatitudini del vescovo» che ha «donato» ai vescovi italiani in occasione dell’ultima Assemblea straordinaria, andando a incontrarli all’Ergife Palace Hotel il 22 novembre 2021: «Beato il vescovo che non teme di rigare il suo volto con le lacrime, affinché in esse possano specchiarsi i dolori della gente, le fatiche dei presbiteri, trovando nell’abbraccio con chi soffre la consolazione di Dio» (cf. Regno-doc. 21,2021,647).

E che vuol dire nella guerra «piangere con chi piange»? La nostra parrocchia romana di Santa Maria ai Monti ha nel proprio territorio la chiesa dei Santi martiri Sergio e Bacco, che è il fulcro storico della presenza in Roma dei cattolici ucraini di rito orientale. Lì andavo a intervistare l’indimenticabile cardinale Ljubomyr Huzar (1933-2017), quando veniva a Roma: «Sono sacerdote celibe figlio di sacerdote sposato». 

Abbiamo scambi abituali con i fratelli ucraini per Natale, Pasqua, Epifania. Per il Corpus Domini la nostra processione termina nella loro chiesa. E ora gli scambi sono divenuti collaborazione nella raccolta di medicinali e cibi da inviare al confine tra Polonia e Ucraina. Il nostro parroco don Francesco indirizza al loro, don Taras Ostafiiv, chi arriva in parrocchia con gli aiuti. 

Difficile pregare per Putin
ma ci dobbiamo provare

Nelle nostre case sono poi tantissime le colf e le badanti ucraine: a Roma gli ucraini sono più di 10.000, in Italia forse 250.000. Piangere con loro e aiutarli con ogni mezzo: ecco un modo di farci prossimi a questo popolo dilaniato. In attesa di ricevere – insieme a loro – la consolazione promessa dalla beatitudine.

Siamo chiamati a sperare per tutti: per tutti nella pandemia, per tutti nella guerra. Anche per i russi del Donbass, anche per i giovanissimi soldati russi mandati ora in Ucraina: e questa preghiera non è difficile. Più difficile è pregare per Putin, ma ci dobbiamo provare: sostieni Signore la nostra debole fede che ogni uomo «è cosa molto buona».

 

www.luigiaccattoli.it

 

Tipo "Io non mi vergogno del Vangelo"
Tema Cultura e società
Area EUROPA
Nazioni

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