Il 17 giugno scorso, attraverso le vie diplomatiche, la sezione per i rapporti con gli stati della Segreteria di stato vaticana, con una nota verbale ha comunicato allo stato italiano la propria preoccupazione circa alcuni contenuti del disegno di legge n. 2005, recante «misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità», noto come DDL Zan.
Se «una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla?» (Regno-doc. 15,2013, 462). La frase, pronunciata da papa Francesco nel luglio 2013 durante il viaggio di ritorno da Rio de Janeiro, è stata presentata come una svolta nell’atteggiamento della Chiesa nei confronti dell’omosessualità.
Il mese di giugno e gli inizi di luglio sono stati caratterizzati da un’agenda fittissima di notizie sul fronte vaticano – escludendo la questione del DDL Zan (cf. in questo numero a p. 409) e della salute del papa –. Meritano di essere fissate nero su bianco perché sintetizzano alcuni degli snodi cruciali del pontificato di Francesco e delle Chiese locali nel seguire il percorso tracciato dal papa venuto «dalla fine del mondo».
Nessuno dubita ormai che ci sia grande attenzione nell’affrontare le questioni di natura penale, tantomeno si può dubitare che le recenti modifiche al Codice di diritto canonico (CIC) nella parte relativa alle norme penali (Libro VI) siano un tentativo di risposta alle esigenze della Chiesa e un aiuto per ordinari e superiori maggiori che devono gestire crimini, ovvero sorvegliare il «gregge di Dio» e «raddrizzare ciò che talvolta diventa storto».
S’aggrava la crisi nei rapporti tra la Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti (USCCB) e il presidente Joe Biden attorno alla questione dell’eucaristia per i politici che hanno posizioni incompatibili (specialmente sull’aborto) col magistero della Chiesa. Si tratta anche dell’ennesimo capitolo nella storia delle tensioni tra papa Francesco e uno degli episcopati più grandi al mondo (433 tra vescovi e arcivescovi, di cui 160 emeriti).
Sono passati ormai quasi 40 anni dall’Assemblea generale delle Chiese battiste in Italia quando, nel 1982, con consenso unanime, fu votato per la prima volta il riconoscimento del ministero pastorale femminile. Gli anni che precedono questo traguardo sono caratterizzati da dibattiti locali e nazionali, da convegni su tematiche legate alla pluralità di ministeri e al ruolo delle donne nella società, nella Chiesa e nelle Scritture. Dibattiti che porteranno a maturare una sensibilità inedita rispetto al ruolo pastorale delle donne.
Ha un propulsore inconsueto, ma potente, il vento riformatore che sta riattraversando il microcosmo della giustizia italiana. Starter (e controllore) è l’Unione Europea, e stavolta a risuonare non è il solito, generico ritornello («ce lo chiede l’Europa») buono a tutti gli usi, persino a suggello di fake news. Riformare la giustizia è divenuto un imperativo per il nostro paese se si vogliono ottenere i fondi del Next Generation EU.
Sono rimasti soli, hanno sperimentato la paura del contagio e l’ansia di questo tempo sospeso, tra un lockdown e l’altro, tra una dichiarazione dello stato d’emergenza e una promessa di ritornare (presto) a scuola in presenza. Si sono sentiti respinti da tutto e da tutti; chi è riuscito a tornare a frequentare gli spazi pubblici e la vecchia compagnia di amici si è trovato disorientato, senza alcun adulto a fianco in grado di elaborare questa esperienza traumatica.
In Germania il 26 settembre sarà eletto un nuovo Parlamento federale (Bundestag), e questa elezione si svolgerà sotto un segno speciale: a parte la votazione costituente nel 1949, per la prima volta nella storia della Repubblica federale il capo del governo in carica non è più candidato alla rielezione.
Distratti dalle «ripartenze» post-pandemiche e dal DDL Zan, forse non abbiamo fatto attenzione alla notizia dell’approvazione, da parte del Parlamento Europeo, del cosiddetto Rapporto Mati relativo all’interruzione volontaria della gravidanza, presentato dall’eurodeputato croato Predrag Fred Matić il 21 maggio scorso.
Quanti hanno consuetudine con gli scritti di Marion riconosceranno agevolmente in quest’opera,1 presentata come il frutto di un percorso pluridecennale di studio e d’insegnamento, i temi forti della sua riflessione filosofico-teologica. Dai numerosi riferimenti posti in nota, si ha conferma che il volume costituisce una sorta di summa della ricerca sviluppata da Marion.
Per la redazione delle Schede di questo numero hanno collaborato: Giancarlo Azzano, Giacomo Coccolini, Maria Elisabetta Gandolfi, Flavia Giacoboni, Francesco Pistoia, Valeria Roncarati, Domenico Segna.
Scrittrice, teologa ed eremita, Adriana Zarri (1919-2010) fu una delle poche donne che riuscì a far udire la propria voce nella Chiesa italiana del Novecento, partecipando in prima persona al dibattito ecclesiale, sociale e politico, e godendo di una certa notorietà per i suoi scritti e per la sua partecipazione a trasmissioni radiofoniche e televisive.
Dopo il folgorante debutto di Mala Kruna (2007), voce poetica consolidatasi e approfonditasi con le altrettanto efficaci raccolte di Pasta madre (2013) e Libretto di transito (2018), la poetessa Franca Mancinelli, la «donna-albero», con questo volume ha pubblicato uno fra i libri di poesia più originali dell’attuale panorama letterario italiano, certamente la sua raccolta più stilisticamente matura.
Perché i bambini durante il COVID sono scomparsi come soggetti? Erano una questione privata delle famiglie? O piuttosto un protagonista strutturalmente trascurato dalla società italiana? A partire da questi interrogativi l’autrice, giornalista di Repubblica, ha svolto una piccola inchiesta, ponendo la domanda che fa da titolo al volume a uomini e donne pedagogisti, psicologi, demografi, scrittori, traendone alcune risposte.
Il titolo, ripreso dall’autobiografia spirituale di Desmond Tutu (In God’s hand; cf. 9), si muove su un’equivalenza che rende il termine «Dio» sinonimo di «religione» (operazione che l’arcivescovo sudafricano, con ogni probabilità, non approverebbe). Scelta dichiarata, presente già in vari libri, ben noti a Ventura, tutti più o meno orientati a indicare il fatto che, negli ultimi quattro decenni, le religioni sono ritornate a giocare, su vari fronti, un ruolo pubblico.
L‘indagine di Coccia inizia con una sorta di mea culpa. Nonostante sia connaturata all’esperienza del vivere di tutti, la casa è stata (colpevolmente?) dimenticata dalla filosofia che le ha sempre preferito la polis, la dimensione comunitaria, la vita associativa. Nelle parole di Coccia «la filosofia ha dismesso lo spazio domestico dall’orizzonte delle sue preoccupazioni» (7), facendo della eudemonia «un fatto politico» (8) e consegnandola in qualche modo ai fantasmi della violenza (politica).
Mette insieme dolore e pensiero il piccolo e-book di Ilario Bertoletti, direttore editoriale della casa editrice Morcelliana, grazie al duplice presente della pandemia e delle domande umane, troppo umane che incrociano sofferenza, coscienza e libertà. E non si può dire, infatti, che non ci sia niente di nietzschiano nel testo, che in tre capitoli tenta di delineare un’etica delle virtù affatto ignara del conflitto di valori che caratterizza la morale.
Il libro stesso, attraverso il contributo di diversi autori, è un percorso che invita a mantenere uno sguardo aperto – si direbbe «ermeneutico» – dalle parole del titolo all’orizzonte più vasto entro cui esse emergono. La linea dell’orizzonte è disegnata dal rapporto tra filosofia e teologia morale la cui stretta relazione dialogica, particolarmente rilevante per comprendere l’esperienza morale, è (anche) testimoniata dalla traduzione, operata da S.Tommaso, dell’aristotelica phronesis con prudentia.
A distanza di oltre 40 anni, con lo stesso titolo, Paolo Pecere, ricercatore presso l’Università di Roma Tre, dove insegna Storia della filosofia e del pensiero scientifico, raccoglie l’eredità attraverso una ricerca sul campo che lo porta a spaziare in quattro continenti: Europa, Asia, Africa, America.
Doveva vincere e ha vinto. Tra poche settimane, il prossimo 5 agosto, entrerà in carica il nuovo presidente iraniano, il conservatore Ebrahim Raisi, ex capo del sistema giudiziario, un ayatollah dal turbante nero, discendente diretto – secondo la tradizione sciita – del profeta Maometto. Foto sgranate del 1979 lo mostrano già attivo nella Rivoluzione, appena diciottenne, una barba poco formata e un eskimo verde.
Il patriarca d’Antiochia dei maroniti, card. Béchara Boutros Raï non le ha mandate a dire al primo ministro designato Saad Hariri: «Senza un governo che funzioni – ha ammonito – il paese morirà». Appena tornato dal Vaticano per la Giornata di preghiera per il Libano convocata da papa Francesco il 1° luglio nella quale erano stati invitati tutti i rappresentanti delle Chiese cristiane libanesi, tra le quali quella maronita gode di una posizione autorevole e politicamente influente, Raï ha incontrato il presidente Michel Aoun. E ha accusato senza mezzi termini tutta la classe politica, dal governo ad interim al presidente, d’avere violato la Costituzione, rovinato l’economia e di non aver agito di fronte alla disoccupazione che aumenta e alle imprese che chiudono.
Sembrava dovesse essere una guerra lampo. Uno di quei conflitti aspri, ma di pochi giorni. Invece, nonostante il premier Abiy Ahmed abbia annunciato il termine delle ostilità a fine novembre, a circa un mese dall’inizio, le armi non hanno mai smesso di sparare in Tigray, la regione settentrionale dell’Etiopia. Alcuni analisti lo avevano annunciato: la guerriglia sarebbe andata avanti. I membri del Fronte popolare di liberazione del Tigray (TPLF) non avrebbero lasciato facilmente il potere all’odiato governo federale di Addis Abeba.
È il 27 giugno. La strage mancata in una chiesa è solo l’ultimo episodio della lunga scia che insanguina l’est della Repubblica democratica del Congo. Questa volta una bomba artigianale era stata piazzata dietro l’altare nella parrocchia Sant’Emmanuele, quartiere Butsili, alla periferia di Beni. Due feriti gravi e vari danni, solo perché l’ordigno è esploso prima della messa domenicale. Ma il bilancio poteva essere ben peggiore.
Padre Stanislaus Lourdusamy, noto come Stan Swamy (swamy è un termine onorifico della tradizione indù verso chi si dedica alla vita religiosa), è deceduto il 5 luglio in ospedale a Mumbai dopo 9 mesi in detenzione. Nato nello stato meridionale indiano del Tamil Nadu nel 1937, il gesuita era noto soprattutto come attivista per i diritti delle popolazioni indigene e di altri gruppi discriminati, emarginati o perseguitati ai quali aveva dedicato gli ultimi 30 anni della sua lunga vita. Si era trasferito nello stato di Jharkhand, nell’India centrale, uno tra gli stati indiani più arretrati e a più alta presenza di minoranze tribali e aborigene, in parte convertite alla fede cristiana.
Sembrava un outsider che in marzo quasi non compariva nei sondaggi, e invece Fabio Castillo, candidato del partito marxista Perù libero, è clamorosamente divenuto il 6 giugno il primo presidente della Repubblica di sinistra dalla fine dei governi militari nel 1980. Dopo aver ottenuto la maggioranza relativa nel primo turno col 19%, ha, infatti, battuto nel ballottaggio Keiko Fujimori, leader del partito di destra Forza popolare e figlia di Alberto Fujimori, capo dello stato dal 1990 al 2000, attualmente in carcere per crimini di lesa umanità e reati economici.
Perché la questione degli abusi e delle violenze (in primis su minori) nella Chiesa costituisce una sfida per la teologia? Perché, soprattutto in ambito tedesco, si parla di esse come di un «complesso sistemico»? Che relazione c’è tra la crisi innescata dalla pedofilia e la liturgia? Gli studi che sono stati effettuati prima negli USA e soprattutto in Germania hanno messo in luce il fatto che la pedofilia nella Chiesa è resa possibile grazie a un complesso insieme di fattori – «il modo di gestire il potere, la maniera di comprendere la sessualità, le forme di vita sacerdotale» – agiti dai singoli soggetti colpevoli. Per questo fine è stato avviato il Cammino sinodale tedesco e per questo motivo lo studio che qui presentiamo analizza «le dinamiche specifiche del potere sacralizzato». E lo fa puntando all’ambito liturgico, perché qui si rende particolarmente visibile il «potere» vissuto nella Chiesa, i suoi codici, le sue pratiche, le sue logiche, la sua estetica. Il rischio maggiore, quello dell’«autoreferenzialità», è quello di diventare come un corpo con «una grande testa» ma quasi privo di membra, cioè una liturgia clericale priva della teologia battesimale che dà forma alla comunità che celebra.
Il volume, di cui qui accanto vengono presentati come Studio del mese alcuni contenuti fondamentali rielaborati da parte dei tre curatori, fin dal titolo illustra il quadro delle gravi questioni cui tenta di dare risposta: Amt – Macht – Liturgie. Theologische Zwischenrufe für eine Kirche auf dem Synodalen Weg, a cura di Gregor Maria Hoff, Julia Knop e Benedikt Kranemann, («QD 308», Herder Freiburg im Br. 2020). In traduzione italiana può suonare: Ufficio ministeriale, potere e liturgia. Commenti teologici per una Chiesa in cammino sinodale.