Tempo di uccidere
Un solo, tragico, ipnotico, bellissimo romanzo. Tempo di uccidere, di Ennio Flaiano (Adelphi, Milano 2020), nasce così: nel dicembre del 1946, Leo Longanesi, che ha appena fondato la sua casa editrice, chiede a Ennio Flaiano di scrivere un romanzo. Entro marzo, perché c’è la prima edizione del Premio Strega e si tratta di partecipare. Il 1o marzo il romanzo viene consegnato, qualche mese dopo vince lo Strega, e Flaiano non ne scriverà mai altri. Peccato.
Tempo di uccidere racconta le azioni insensate di un ufficiale italiano in Etiopia, durante la guerra coloniale del 1935-1936. Non sappiamo il suo nome, forse non ne merita uno. Lo troviamo che si è appena salvato da un incidente: l’autocarro che lo portava in città si è rovesciato. Andava a cercare un dentista per un dolore lancinante che lo tormenta. Invece di aspettare i soccorsi lascia da solo il soldato che guidava l’autocarro e si mette in cammino verso il fiume, forse spera di perdere meno tempo, ha solo 4 giorni di permesso per risolvere il suo problema.
E parte, a piedi, avvolto, immerso nel caldo quasi solido di una natura esagerata, ogni seme germogliava in ogni luogo, ma fissa, seccata, gli alberi come «animali impagliati» (11). Dopo un po’ un camaleonte gli attraversa il sentiero: «Brava bestiola», «calmo, onestamente spaventato da quell’Africa piena di insidie, metteva una zampetta dietro l’altra con delicatezza» (16). In modo del tutto insensato gli infila una sigaretta accesa in bocca e lo vede allontanarsi fumando. Si perde. Per indolenza.
È come se non gli interessasse davvero trovare un nuovo passaggio, arrivare dove il dente può essere curato. Gli interessa, ma non abbastanza. Per tutto il romanzo le cose gli interessano ma non abbastanza. Vede quel che dovrebbe fare, ad esempio tornare indietro quando capisce di non sapere dove si trova, ma non lo fa, un po’ per orgoglio un po’ per indolenza, appunto.
Comunque invece incontra dei cadaveri, un abissino seduto che sembra guardare proprio lui con l’occhio fisso della morte. E poi un altro, disteso, con la mano che indica il cielo. E un terzo, con la testa poggiata agli avambracci. Di loro ha sentito prima il fetore. Pensava fosse uno dei muli. Morivano frequentemente i muli della Sussistenza su quei sentieri. Invece sono esseri umani.
Non c’è determinazione precisa in quello che fa, nemmeno quando subito dopo incontra una giovane donna dal turbante bianco che raccoglie i capelli. È nuda, «accosciata come un buon animale domestico» (23). Si lava, raccoglie con le mani l’acqua dalla pozza e se la versa sulle braccia e sul resto del corpo con movimenti di grazia inconsapevole. Immagine primordiale, bella e nuova come il primo giorno della creazione. In realtà anche questo agli occhi senza passione dell’ufficiale non è così particolare e interessante: «Era uno spettacolo comunissimo, ma migliore degli altri che mi si erano offerti sinora. Poiché il giuoco non accennava a finire, accesi una sigaretta e intanto mi sarei riposato» (24).
Tutto qui. L’ufficiale tenta un approccio. Lei lo respinge, ma senza convinzione vera. Una schermaglia blanda e il rapporto avviene e i due passano la notte insieme, fuori nella natura, ma ci sono i pericoli, forse una bestia nel folto, e l’ufficiale gli spara e per errore ferisce anche lei, che è grave e morirà e allora la uccide, per pietà o per finire la storia malnata. È solo l’incipit. Quel che segue è da un lato l’irresoluto altalenare della volontà dell’ufficiale che decide di uccidersi, ma non ci riesce, poi di costituirsi, ma non ci riesce, poi di scappare, ma non ci riesce. E del resto assolutamente nessuna di queste decisioni lo convince.
C’è tutto l’altalenare di tutte le nostre vite toccate dalla colpa, in qualche modo nessuno scampa dalla colpa, in questo romanzo davvero straordinario. E c’è lo sguardo occidentale, coloniale, pigramente superiore, indolente e sciatto sulle persone indigene. I nobilissimi abissini. Dopo un errare inconcludente e disastroso l’ufficiale torna sul luogo dell’incontro, che è il luogo del delitto, e lì rimane anche se ogni giorno si ripromette di andarsene.
C’è un vecchio in quel luogo, che ha a lungo cercato la giovane donna assassinata, un vecchio che parla l’italiano, vive di azioni incomprensibili, prepara pali per una qualche capanna che non costruisce mai, assiste l’ufficiale quando si ammala, tenta di ucciderlo e poi lo salva. E c’è un bambino che va e viene e impara il mestiere marpione dei bianchi, l’arte di far commerci di tutto. Bravo, più bravo dei conquistatori perché ne conosce le debolezze.
Hanno nomi biblici in Abissinia. Lei si chiama Mariam, come quasi tutte le donne. Il bambino si chiama Elias. Il vecchio Johannes. Nomi biblici ma niente funziona. È un balletto sgraziato il tentativo di capirsi. Rapporto impossibile fra vittime e conquistatori.
È tutto primordiale. La vita, il sesso, la morte. Un Eden rovesciato dove prevale la malattia, anche la bellissima natura è malata, anche la donna, forse ha la lebbra, forse prima di morire ha infettato l’ufficiale. Forse il vecchio lo ha però guarito. Confessare la storia può assolvere dalla colpa? O almeno dare un poco di riposo.
C’è un fetore che lo coglie a sorpresa continuamente. Un mulo morto. Un uomo morto. Un ricordo, il ricordo di una morte. Ci prova l’ufficiale a confessare ogni cosa, ma chi riceve la confessione, il suo superiore, è un filosofo: «Il prossimo è troppo occupato coi propri delitti per accorgersi dei nostri» (279). Lo lascia andare. E allora non resta che vivere. Una vita di cui l’ufficiale in qualche momento ha sentito l’assoluto: «Non posso lasciare il cielo, anche se è un cielo di piombo non posso lasciare nulla, nemmeno questo cespuglio, nemmeno i giorni più mediocri e le notti più cupe, o le persone che odio: nulla» (176).
Intanto Johannes ha finito di preparare pali e li pianta come tettoia, riparo, memoria perenne sul posto in cui l’ufficiale ha sepolto Mariam, e non si sa come il vecchio abbia saputo. Il vecchio che è il padre, che ha salvato l’assassino, perché l’umanità è una, ma non può andare oltre. Nessuno salva l’assassino da sé stesso: «Affrettai il passo, ma la scia di quel fetore mi precedeva» (280).